
Il processo di appropriazione privata di tutto ciò che per secoli è stato bene comune prosegue e dilaga investendo ogni ambito della nostra vita. Un imponente passaggio di mano ed una concentrazione della proprietà. Risorse materiali e basi biologiche, conoscenza scientifica e diritti collettivi, istruzione e idee, beni immateriali e immaginario, relazioni ed emozioni, servizi sociali e salute, l'acqua e forse, domani, anche l'aria.
Preoccupa particolarmente noi che ci occupiamo di patrimonio culturale la crassa prepotenza di chi vorrebbe alienare i monumenti o fare cassa disarticolando il tessuto culturale del territorio, palesando così che nulla è capace più di cogliere, nulla è capace più di vedere e sentire in un'opera d'arte, fuorché il valore immediatamente economico, e che nulla sa della complessità pluridimensionale e di relazioni irriducibili, a volte immateriali e simboliche, che si realizza nei secoli nel paesaggio.
Non programmi aberranti, ma coerenti manifestazioni di un fenomeno ben più vasto e pervasivo iniziato in Occidente qualche secolo fa con le enclosures inglesi. Tutto nel nome dell'ideologia modernizzatrice del mercato e della valorizzazione economica perseguita ciecamente e pervicacemente con dispositivi normativi sempre più adeguati e stringenti a legalizzare e difendere la rapacità proprietaria: la proprietà intellettuale ed i brevetti che riducono la scienza, le risorse di informazione e di conoscenza a merci.
Eppure proprio come scriveva Hölderlin "Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch".
A confermarcelo è l'altra vicenda dei nostri giorni, che ha radici altrettanto lontane: la storia di uomini e di donne che credendo nel Comune da realizzarsi, da vivere ogni giorno, consapevoli che la scienza è il risultato dell’interazione di tutti gli esseri umani fra loro, producono, cooperando fra loro, al di là di ogni formalismo contrattuale, mercantile e utilitarista, conoscenza e cultura. Tante esperienze di produzione e fruizione della conoscenza scientifica contro le nuove enclosures, che hanno trovato nello sviluppo dell'informatica ed in internet un primo strumento di diffusione e che dimostrano che la condivisione non solamente è una pratica possibile ma anche vincente, capace di garantire una migliore innovazione tecnologica e creare anche sviluppo e ricchezza. Tanti sistemi open source: dal software rilasciato mediante licenze che ne garantiscono la libera distribuzione, riviste e database open access che infrangono il segreto imposto dalle imprese sulle basi conoscitive, espressioni della creatività artistica che trovano nuove forme di tutela, liberate dall’individualismo proprietario. Tanti laboratori virtuali che lavorano in rete senza che gli obiettivi di ricerca siano dettati dalle imprese con la catena calibrata sulle esigenze di immediato ritorno degli investimenti.
Sì anche la ricerca "fine a se stessa"!
La turris eburnea dell'Accademia, che si era consolidata grazie al monopolio dell'informazione, incomincia a scricchiolare e con lei ogni barriera di potere all'accesso culturale ed alla scienza. Ma è possibile un processo di costruzione sociale di tecnologie che riguardino ambiti diversi da quello informatico?
Archeomatica ha colto in questi mesi, nel settore dei beni culturali, i segni di questa volontà di autorganizzazione della ricerca, di fare rete al di là degli steccati accademici, ed intende proseguire con entusiasmo e forse con un briciolo di utopia ad offrire il suo piccolo contributo di stimoli e di connessioni, perché il processo di autorganizzazione del sapere e delle informazioni si sviluppi nel settore del patrimonio culturale anche con lo scopo di agevolare fruizione del patrimonio. La nostra ricchezza, ma non nel senso che intendevano i protagonisti dell’Hochkapitalismus e intendono i loro tardi epigoni contemporanei.
Michele Fasolo
Direttore Responsabile