La Negazione di S. Pietro di Caravaggio alla Certosa di S. Martino a Napoli

La Negazione di S. Pietro di Caravaggio alla Certosa di S. Martino a Napoli
Fig.1 - Caravaggio, Negazione di S. Pietro, Sagrestia della Certosa di S. Martino, Napoli

Luigi Scaramuccia, giunto alla descrizione di San Luigi dei Francesi a Roma, scriveva nelle ‘Finezze dei pennelli italiani’ (Pavia 1673): “Con l’occasione di ritrovarsi quivi non vollero mancare di accostarsi alla Cap(p)ella di S. Matteo la quale veramente è d’uopo confessarla bravamente colorita dal Pennello del Caravaggio.” La Vocazione di San Matteo può considerarsi il dipinto per eccellenza tra i quadri a più figure raccolte attorno ad un tavolo, che sempre hanno catturato l’immaginazione della critica caravaggesca del romanzo di formazione dell’artista, leggendario in Stendhal, e di una breve vita violenta da perseguitato, perfino nella segregazione.

Era desunto dalla letteratura biografica sul giovane morto in circostanze oscure con l’incontrastato giudizio di pittore torbido di scene di bassifondi e di taverne, soprattutto laddove e quando, in una variopinta oscurità, aveva rappresentato episodi dei Vangeli e testi apocrifi degli ‘Atti degli Apostoli’ negli scenari incessanti della vita comune. Filippo Baldinucci, nelle ‘Notizie dei professori del disegno. Dal 1580 al 1610’ (Firenze 1702, pag.277), aveva scritto di lui quando era all’apice del successo: “Quindi si partì alla volta di Napoli, e vi trovò già fatto chiaro il suo nome, che subito v’ebbe a fare per la chiesa di S. Domenico Maggiore nella cappella della casa di Franco l’Istoria della Flagellazione del Signore; per la Sagrestia di San Martino quella (n.d.r.: Istoria) della maggiore di San Pietro e per la chiesa della Misericordia le sett’opere in un sol quadro.” Se non vi fossero le rare descrizioni di Giovan Pietro Bellori, di Pompeo Sarnelli, di Bernardo De Dominici e di altri storici dell’arte, da qualche decennio disseminate nei formati digitali, neanche ci avvicineremmo a comprendere che l’unica storia d’invenzione del quadro posto sulla parete della Sacrestia grande della Certosa di San Martino a Napoli sia un Rinnegamento o Negazione di S. Pietro all’ancella ostiaria (cm.140x200) (Fig.1), l’episodio piu’ famoso del Nuovo Testamento e dell’agiografia del santo nella predicazione religiosa. Si trova di fronte all’Ecce homo di Massimo Stanzione, che e’ di formato eccezionale e a sua volta scalato sulle figure di soldati, nella Sacrestia alla Cappella del Tesoro della chiesa: per Baldinucci una delle tele più importanti di Caravaggio esposte al pubblico napoletano.
Nemmeno sarebbe evidente che è anche strutturata nella medesima disposizione della narrazione dei Vangeli propria anche alla Vocazione del pubblicano Matteo: attorno ad un imbarazzante tavolo con giocatori. Talmente straniante che potrebbe sfuggire, se la tela che sempre vi si trova ora, molto scurita, non fosse paragonabile al dipinto di S. Luigi dei Francesi, perché quasi ogni pittore di quella generazione nella stragrande maggioranza abbia colto con simile taglio e formato, piu’ di ogni altro denso di mezze figure di servi e di soldati del corpo di guardia di Pilato, l’episodio della vita dell’apostolo Pietro, che rinnegò Cristo nel cortile del sinedrio al canto del gallo.

 

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Fig. 2 - Jusepe de Ribera attr., Negazione di S. Pietro, Galleria Corsini, Roma

Michele Biancale nel 1917 volle accostare il quadro al nome di Carlo Saraceni, non a torto, poiché questo pittore, per primo risentì del cromatismo dell’ombra di Caravaggio finendo per assimilarlo, ma non fu il solo testimone tanto dei quadri a Roma, dipinti a Santa Maria della Scala e a San Luigi dei Francesi, quanto della Negazione di San Martino. Pochi anni dopo, nel 1920, lo stesso Biancale arricchì la sua prima tesi col confronto tra quella Negazione e l’altra (Fig. 2), che pure attribuiva a Saraceni, allora a Palazzo Venezia a Roma e oggi nuovamente alla Galleria Corsini della stessa città. E’ inoltre in virtù del confronto anche fotografico di Biancale, che riferiva entrambe le opere a Carlo Saraceni, che ancora è possibile scorgere quanto la seconda racconti la storia della notte della Passione di Cristo della prima e ne sviluppi e ne amplifichi il tema, tanto da sembrare della stessa mano, ma con molte piu’ figure. Per questa seconda tela (cm.163x233), che ha portato il nome longhiano di Maestro del Giudizio di Salomone anni dopo l’attribuzione di Biancale a Saraceni, è stato nuovamente sciolto nei decenni scorsi l’anonimato dell’ignoto caravaggesco in Jusepe de Ribera, decifrazione dovuta alla sua oscurità soprattutto, che non ne toglie l’assonanza, ancora più convincente, alla tela di Napoli, portatrice di novità anche rispetto alla Vocazione. 
L’attrazione dell’anonimato del Maestro del Giudizio di Salomone (Galleria Borghese, Roma), da un maestro olandese, sempre piu’ spesso, nel secolo scorso oscillato nell’orbita di un francese, per l’ombra accentuata, tra Simon Vouet e Gerard Douffet, si deve anche a Raffaello Causa (Arte francese a Napoli, 1967, tav. XXIV); mentre appariva gia’ tolta ai soggetti di Bartolomeo Manfredi la Negazione di Pietro di Nicolas Tournier (Museo del Prado, Madrid). Nel dipinto Corsini (Fig. 2), che ha una storia collezionistica di per sé rilevante, il Santo è a braccia conserte e solo il dorso di una mano batte al petto, nel gesto di discolparsi, sorpreso dall’accusa della serva di Pilato che lo addita, complicando il gesto delle palme delle mani aperte, che è nel dipinto di San Martino. 
E’ indubbio che nel quadro romano i soldati stiano giocando ai dadi, tanto da poterlo ritenere la tela dei “Giuocatori” di Ludovico Cigoli descritta nel Palazzo Corsini alla Lungara a Roma nel 1841 da Erasmo Pistolesi nella ‘Descrizione di Roma e suoi contorni’ (pag. 527), una conferma che fosse rimasto nel palazzo fino alla fine del secolo. Ed era a Luigi Lanzi che si doveva l’identificazione del soggetto di una Negazione di Pietro nel notevole dipinto del Palazzo Corsini romano, che lo storico aveva invece attribuito a Valentin nella Storia pittorica dell’Italia (Tomo I, Bassano 1795-1796, p.487; Volume II, Scuola romana e napolitana, 3a ed. Milano 1824, p.180): "I suoi [n.d.r.: di Valentin de Boulogne] quadri di cavalletto non sono in Roma molto rari. Bellissima e’ la Negazione di Pietro in Palazzo Corsini." Lanzi era a conoscenza dell’’Itinerario Istruttivo’ di Roma di Mariano Vasi, edito nel 1791, che nel Palazzo Corsini alla Lungara aveva elencato (Tomo II, pag. 564): “…la Negazione di S. Pietro di Mr. Valentino”; ne’ sorprende che il soggetto di questo dipinto riferito a Valentin e probabilmente appartenuto alla raccolta del cardinale Neri Corsini, fosse cosi’ identificato dalla storica eloquenza che mostra.
Valentin, a Roma nel 1609 e nel 1614 documentatamente, aveva dipinto pero’ la Negazione più volte, in una delle quali, alla Fondazione Longhi (Fig. 3) a Firenze (già collezione Vittorio Frascione, Firenze, che Longhi negli ‘Ultimi Studi’ riferiva proveniente da collezione privata milanese), il Santo tende una mano al braciere per riscaldarsi e con l’altra si stringe il mantello al petto; ma anche in un’altra tela, con meno figure, del Museo Pushkin, nota a Lanzi da un’incisione in controparte di Pierre François Basan (da Matthias Osterreich, Harvard Museum, Harvard), dove S. Pietro apre le palme davanti al suo volto identicamente al quadro di San Martino. In entrambi i due ultimi dipinti di Valentin e’ chiaramente visibile il dettaglio del braciere, che e’ analogo pure nella tela di Ignoto caravaggesco della Quadreria del Pio Monte della Misericordia a Napoli, in cui il Santo allarga le braccia con entrambe le palme delle mani aperte proprio come nella tela di S. Martino. Quest’ultimo è tale senza avere nulla dei dettagli archeologici dei sarcofaghi di Valentin, probabilmente fra quelli recuperati alle Terme Alessandrine a S. Luigi dei Francesi a Roma, che in parte arricchirono la collezione di Palazzo Giustiniani e che in certo qual modo firmano i suoi lussureggianti soggetti.

 

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Fig. 3 - Valentin de Boulogne, Negazione di S. Pietro, Fondazione Longhi, Firenze

Nella Negazione (Fig. 3) della raccolta Longhi ricordata, Valentin dimostra inoltre una prossimita’ alla Vocazione di S. Matteo di Bartolomeo Manfredi della Gemäldegalerie di Dresda, un dipinto ancora genericamente noto come ‘La stanza delle guardie’, in cui il chiamato Matteo, che indossa una scoppola, chinato sul tavolo da gioco, riscuote le gabelle ad un soldato, investito in pieno dalla luce. Ma anche alla Negazione di Pietro di Bartolomeo Manfredi da Palazzo Verospi a Roma nell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig, di cui avrà parlato ancora Giovan Pietro Bellori e in cui Pietro, portandosi una mano al petto, con l’altra all’orecchio mostra di aver udito il canto del gallo, mentre l’ancella lo addita al soldato in primo piano, ruotando il terzetto di protagonisti del dipinto della Certosa di San Martino e fornendone esplicitamente e particolareggiatamente la chiave di lettura.
Bellori: “Vedesi in casa de’ signori Verospi in Roma (Palazzo in via del Corso) il quadro del Signore che scaccia i venditori dal tempio (Museo di Libourne), ritrattevi alcune teste naturalissime, tra le quali uno che per timore di perdere le monete vi tiene sopra la mano; e l’altro quadro con l’ancilla che addita San Pietro ad uno, il quale si volge dal giuoco de’ dadi”, quadri altrimenti famosi del collezionismo romano, che Bellori riferiva a Manfredi.
Il gesto di coprire con la mano le monete descritto da Bellori nella Cacciata di Libourne, è frequente al tavolo da gioco in altri quadri della Negazione e, in quella della sacrestia della Certosa di San Martino tutt’e tre i giocatori protendevano la mano destra sul tavolo, rivolgendo il proprio sospetto alla sorte del gioco. Una scena considerevole del dipinto, che altrimenti Bellori vi aveva descritto, sebbene svisandola, nel ritenere la Negazione di Napoli, uno dei migliori quadri napoletani di Caravaggio: “Si tiene in Napoli fra’ suoi quadri megliori la Negazione di San Pietro nella Sagrestia di San Martino, figuratovi l’ancella che addita Pietro, il quale volgesi con la mani aperte, in atto di negar Cristo; ed è colorito a lume notturno, con altre figure che si scaldano al fuoco.” 
Una frase che può essere compresa se confrontata alla citazione stringata, ma intellegibile, di Francesco De Pietri nell’’Historia Napoletana’ del 1634 di un altro dei rari capolavori di pittura di Caravaggio nella città, ricordati tra i maestri ‘forestieri’, cioe’ non napoletani, che vi erano eletti (pag. 204): “Nella Chiesa di Santa Maria della Misericordia e’ degnissima Tavola, dentrovi le Sette opere della Misericordia di rara dipintura del novello Caravaggio.” Per di piu’ se posto in rapporto alla considerazione avuta di questo stesso dipinto nella chiesa di Santa Maria della Misericordia da Charles Nicolas Cochin, che, alla metà del secolo seguente, nel ‘Voyage d’Italie’ del 1758, avrà affermato di non decifrarne affatto il soggetto (Fig.3).
La lanterna da strada in alto a sinistra, sotto il bordo superiore del dipinto della Certosa, non lascia aperto alcun dubbio sul fatto che la tela di cui parlava Bellori, dicendola colorita a lume notturno, fosse un quadro della Negazione; al pari della Presa di Cristo la scena e’ infatti ambientata alla luce di una lampada, come una fiaccola è nelle Sette Opere di Misericordia. Alle tele al lume di notte si ispirarono i suoi primi seguaci, anche nelle altre storie sacre che si erano svolte alla luce del giorno nella lettera dei Vangeli: un’altra storia della Passione, quindi, nello stesso formato delle Cene in Emmaus (National Gallery, Londra; Pinacoteca di Brera, Milano) e della Presa di Cristo (Uffizi, Firenze), ma che era rimasta a Napoli. 
Negli ambienti della sacrestia la Negazione era descritta anche da Cochin: “Au dessous est un tableau de Michel-Ange di Caravaggio (demi-figures de grandeur naturelle). On y voit Saint Pierre qui renie Jesus-Christ; trois ou quatre soldats jouant sur une table; derrier eux & au coin, une femme vue par le dos, qui est la servante qui l’interroge. Ce tableau est très-beau, quoique noirci par le temps. La tête du Saint Pierre est très-belle, & exprime beaucoup. Tout cela est d’une grande vigueur, & les details en sont bien rendus”, che ne evidenziava l’ancella di spalle.
Valentin a Roma, quindi, aveva adottato per una serie della Passione di Cristo tele di formato grande in cui affollava le figure: nell’Incoronazione di Cristo dell’Alte Pinakothek di Monaco (Voss 1924), pure presente alla Mostra del Caravaggio del 1951, il formato orizzontale prescelto era il medesimo della Negazione della raccolta Longhi (cm.173x241), che oscillava anche la Presa di Cristo (cm. 175X245) dalla Collezione Ladis Sannini di Firenze (oggi Bigetti, Roma) ad una medesima sequenza, di cui non doveva invece aver fatto parte l’Ultima Cena della Galleria Barberini, appartenuta ai Mattei dal 1631 (142x230), venduta al Cardinale Fesch nel 1808 e battuta all’asta del 1875 dal Monte di Pietà di Roma, che dimostrava come, oltre che per i Barberini, avesse dipinto per i Mattei.

 

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Fig. 4 - Gerrit van Honthorst, Negazione di S. Pietro, Musée des Beaux Arts, Rennes

Tra i primi Gerrit van Honthorst, in almeno una sua tela della Negazione, quella del Musée des Beaux Arts di Rennes (Fig. 4), dimostrava altrettanto un tavolo al lume di notte, ma di una doppia fiamma di candela, dalla quale traeva i suoi effetti di riverbero. La simulazione del dipinto della Certosa, dove le mani dei soldati erano protese sulla superficie riflettente del tavolo, visto dal basso, avranno tratto in inganno lo stesso Bellori, il quale conosceva nei passi dei Vangeli che facevano parola del compiersi della predizione di Cristo, quello di Giovanni: dov’erano soldati (Gv.: 18,18) che si scaldavano al fuoco. 
Era circolata fin dal 1627 l’incisione di Giovanni Battista Pasqualini della Negazione di S. Pietro di Guercino (Pinacoteca Nazionale di Bologna), a tre figure, con S. Pietro che si scalda le mani al calore di un braciere, che tradizionalmente limitava la scena del passo dei Vangeli e il numero di soldati nel cortile del sinedrio. La ripresa, ovunque, del dialogo con l’ancella e il soldato non contraddice il fatto che la storia intera, sincronica alla Flagellazione, della Negazione di Pietro di Caravaggio fosse presto visibile, se non collocata in alto nella sacrestia della Certosa di Napoli ancora vivente il pittore. 
Non abbastanza per dire che Bellori misconoscesse la Negazione Savelli (Metropolitan Museum of Art) e le raccolte del cardinale Paolo Francesco Savelli nel Palazzo di Termini a Roma, ma che, individuato il dipinto nella Certosa di Napoli, avesse presenti le redazioni, oggi da tempo non più nelle case di nobili romani, di seguaci di Caravaggio. Perfino il Seghers del North Carolina Museum of Art di Raleigh, appartenuto al cardinale Fesch (Spear 1971), noto anche da un’incisione di Schelte Adams Bolswert (m.1633), e che più sembra dipendere dall’Honthorst nella gestualità delle mani e nella figura del soldato di spalle, con una sola luce di candela sul tavolo, stacca il volto abbagliato di S. Pietro dalla rotondità stralunata del dipinto di Napoli, ripercossa circolarmente su ciascuno degli intervenuti. Rembrandt van Rijn stesso mostrerà di avvalersene nella sua Negazione di Pietro.
I più tardi documenti del lascito di Cosimo Fanzago che ancora tratteneva come pegno di pagamento il quadro di Napoli per sé e che testimoniano la sua appartenenza alla chiesa certosina, sarebbero infatti, come quasi sempre accadeva per le opere di Caravaggio, una tarda rivendicazione della proprietà da parte dei frati. Documentano che, anche spostato, non subito fatto, cioé, per esservi collocato nella sacrestia, lo fosse stato durante i rifacimenti degli anni quaranta del Seicento, architettati da Cosimo Fanzago: una sorte non così dissimile, attraverso le fonti, dagli altri suoi dipinti in collezioni private, anche romane. I due Apostoli, ricordati insieme alla Negazione nel documento Fanzago, si trovano nel Museo di Capodimonte (Causa 1967), attribuiti a loro volta al Maestro del Giudizio di Salomone: il primo dei quali, con l'attributo della squadra, raffigura Tommaso Didimo e l'altro Taddeo.
L’architetto e scultore fece realizzare a Viviano Codazzi (Viviano Codagora) le prospettive ad olio in trompe l’oeil di una scalinata e di un colonnato che tamponano le arcate delle pareti corte della sacrestia e a François Duquesnoy gli stucchi dorati che incorniciano sia la tela di D’Arpino della Crocefissione, che aveva affrescato anche la volta, che la sottostante Negazione di Caravaggio. Del complesso studio e progettazione barocchi della Sala, oltre a Bernardo De Dominici (“il pensiere della scalinata” nelle ‘Vite’, Napoli 1742, II, pag. 184. Vita di Cosimo Fanzago), parafrasando Pompeo Sarnelli, Giuseppe Sigismondo ha reso accuratamente quasi ogni dettaglio nella ‘Descrizione della Città di Napoli’ (Napoli 1789, pag.129): “Circa le dipinture ad olio, la scalinata finta in testa della sagrestia, sulla quale vedesi il mistero dell’Ecce homo, fu ideata dal Cavalier Fansaga (n.d.r.: Fanzago), nell’Architettura fu eseguita dal Cavaliere Viviani (n.d.r.: Codazzi), nelle figure dal Cavalier Massimo (n.d.r.: Stanzione)… Di rincontro alla detta scalinata vi è un Crocifisso grande del Cavalier D’Arpino colla prospettiva del Viviani; e sotto evvi un S. Pietro che nega il suo Maestro Gesù, del Caravaggio.” Il disegno architettonico di Fanzago integra strutturalmente, come sempre il barocco, i quadri preesistenti, che non c’è ragione di supporre fossero sulla parete di diverso formato prima del suo intervento, e la stima di valore nei documenti venuti alla luce, testimonia l’importanza dell’opera tra quelle dei maggiori maestri del tempo che lavorarono per la cappella del Tesoro e l’antistante sacrestia. I due Apostoli a Capodimonte, originariamente sulla stessa parete ai lati della Negazione, erano di uno dei seguaci che avevano avuto la possibilità di copiare il dipinto nella Certosa, tra cui De Ribera. Non e’ da escludere che la Negazione  della Certosa fosse stata proprio lo stesso dipinto (ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 28, Vol.87, c.8r/v): ‘…unum quadrum, seu picturam manu quondam domini Michaelis Angeli de Caravaggio confectum, in quo dixerunt esse depictam effigiem Sancti Petri negantis cum ancilla…’ avuto a saldo parziale di un debito di gioco di Luca Ciamberlano, incisore urbinate (Nicolaci, Gandolfi, in Storia dell’arte, Nuova Serie 30, 2011), nel mese di maggio 1613 da Guido Reni - attivo al Casino dell’Aurora per il cardinale Scipione Borghese, oltre che alla Crocefissione di S. Pietro della Pinacoteca Vaticana, che conobbe e stimo’ lo Spagnoletto, e Fanzago stesso, poiche’ a piu’ riprese lavoro’ a Napoli fino alla sua morte, anche per i frati certosini, ancora vivente Carlo Sellitto. Un dipinto di quel soggetto, tratto dalla biografia di S. Pietro, ne risulta in suo possesso, attraverso i suoi registri creditori, nel periodo della Cappella Paolina di S. Maria Maggiore (1612), forse il suo periodo più distante dai modi caravaggeschi dei quadri da stanza e in cui accoglieva nei cantieri il maggior numero di visitatori. Reni stesso avrebbe potuto replicarlo: l’atto di permuta documentando, con la sua stima di valore di duecentoquaranta scudi, come nel 1613 fosse più che noto anche a Roma che Caravaggio aveva dipinto la Negazione di S. Pietro con l’ancella. La Savelli (Metropolitan Museum of Art, New York) (Fig.5), quell'anno presumibilmente già Chigi, uscita nel dopoguerra dall’Italia senza controllo e senza alcun vincolo, è un quadro che solo un grande maestro avrebbe saputo fare nella sperimentazione impressionante di Caravaggio, in cui protagonista era l’ancella, secondo il Vangelo di Matteo (Mt: 26, 73): “Dopo un poco i presenti (n.d.r.: tra cui la serva) gli si accostarono e dissero a Pietro: ‘Certo anche tu sei di quelli; la tua parlata ti tradisce!’ Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: Non conosco quell’uomo! E subito un gallo cantò”, ma non vi è in quei documenti testimonianza alcuna di dove si trovasse il dipinto oggetto di interesse nello strumento romano.

 

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 Fig. 5 - Caravaggio, Sette opere di Misericordia, particolare (Chiesa del Pio Monte della Misericordia, Napoli)

Ovunque e a chiunque da parte di Guido Reni fosse stato depositato il quadro di Caravaggio nel corso della sua vita, poiche’ destinatario non ne fu il procuratore, il pittore bolognese Alessandro Albini menzionato nel documento, anche i maestri emiliani, se non a Roma o a Bologna, avevano potuto trarre i loro soggetti dalla Negazione nella Certosa. Il medesimo che sarà stato visto dallo stesso Honthorst che, tra tutti, ne dava la testimonianza piu’ aderente nel numero, nel formato a mezze figure e nei rispettivi atteggiamenti drammatici dei personaggi, con cui, come molti altri giunti alla notorietà del mercato d'arte negli ultimi decenni, si atteneva a quell’innovativo canovaccio.
Il quadro dell’‘ancilla’, ma soprattutto di S. Pietro, che Giulio Mancini avrebbe forse detto del “Pianto di S. Pietro”, per la sua affinità nella commozione del Santo al passo apocrifo del ‘Domine quo vadis?’ aveva avuto anche in Annibale Carracci, che nel 1603 per gli Aldobrandini aveva già dipinto un S. Pietro, quando aveva interrogato Cristo (National Gallery, Londra), un altro testuale interprete nella volta della Cappella Cerasi di S. Maria del Popolo a Roma, nel ‘Domine quo vadis?’ eseguito da Innocenzo Tacconi (Baglione 1642) e di fatto ispirato alla spinta di rinnovamento di Federico Borromeo. E ‘un Christo, che parla con S. Pietro in casa de’ Pontefici (n.d.r.: romani) quando lo negò, in quadro grande’ di Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio era anche nell’inventario Aldobrandini che si considera stilato nel 1603 dal cardinale bolognese Girolamo Agucchi. Il soggetto elencatovi doveva essere attinente alla pala della Consegna delle chiavi a Cesarea di Filippo, città romana in Israele (Vangelo di Matteo, 16: 22), in cui S. Pietro aveva rimproverato Cristo, realizzata per la Cappella di S. Pietro di S. Maria degli Angeli sotto il pontificato di Clemente VIII, che ‘Il Mercurio errante’ di Pietro Rossini (ed.1789) dirà altrimenti rimpiazzata dal Gerolamo Muziano.
Ed e’ in virtù della diffusione di soggetti dagli atti dell’apostolo anche nelle chiese romane che l’ambiguità della descrizione del quadro di Caravaggio, piena di sottintesi, di Filippo Baldinucci si mostrava perfino divulgativa, alludendo nella sua stringata notizia non solo alla topografia della sacrestia maggiore della Certosa e alla terza negazione al canto del gallo, ma all’episodio piu’ famoso di rinnegamento, in cui il Santo aveva negato Cristo pubblicamente nella turba di servi e soldati nella storia della Passione di Cristo.
Perfino Piero della Francesca lo aveva rappresentato al di fuori del sinedrio nella flagrante Flagellazione della Galleria Nazionale delle Marche: i suoi committenti, tra cui Federico da Montefeltro, erano nei panni di S. Pietro, col mazzocchio, e, in particolare, dei donatori della chiesa apostolica Anania e Saffira; anche Bernardino Luini a San Maurizio del Monastero Maggiore a Milano aveva dipinto la Negazione a tre figure sempre durante l’episodio della Flagellazione. Baldinucci elencava la Negazione di Caravaggio di seguito alla Flagellazione (Museo di Capodimonte, Napoli), in cui la Passione di Cristo nel sinedrio era sintetizzata in un’unica tela.
Al fianco di Cristo, nella Vocazione di S. Matteo di S. Luigi dei Francesi, S. Pietro partecipa nella gestualità delle mani all’analogo soprassalto del chiamato Matteo: il volto inerme e sbiancato del rinnegato, dalla dinamica della luce spiovente, era ritratto nel Caravaggio di S. Martino.

 

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 Fig. 6 - Orazio Borgianni attr., Busto di vecchia, Metropolitan Museum of Art, già Coll. Koelliker, Milano)

Lo chaperon, la cuffia indossata dall’ancella nella Negazione di Napoli (Fig.1) con una lunga foggia, un velo, quale segno della sua rispettabilità di casta, era nell’uso comune nei paesi latini, anche a Napoli, e simili cappucci sono portati da donne ritratte lungo tutto il Seicento, giovani e vecchie: in questo dipinto della Certosa l’acconciatura del copricapo è tutt’altro che disfatta, come appare nel Ritratto a busto di vecchia (Fig. 6) attribuito ad Orazio Borgianni nel Metropolitan Museum of Art, proveniente dalla collezione Koelliker di Milano, ed ha il decoro distintivo di una fiamminga, connotando Saffira, moglie di Anania, nella serva di Pilato, abbigliata come una possidente nel costume dei contemporanei. Il velo ne rivelava la figura, che era liturgica, di ancella ostiaria.
Caravaggio lo aveva già dipinto compostamente nella cuffia di Monica inginocchiata della Madonna di Loreto della chiesa di S. Agostino, dove potrebbe avervi ritratto la Marchesa Costanza Colonna e ancora una volta suo figlio Fabrizio Sforza Colonna, come S. Agostino: l’uno e l’altra erano pellegrini. Egli ritraeva nei dipinti non solo i suoi committenti, soliti rimanere in incognito, o modelli, ma le persone e le personalità che riconosceva tra i donatori delle chiese che frequentava: nella Madonna del Rosario, che si trovava a Napoli nel 1607, dove dipinse S. Domenico e un altro santo - che si vuole identificare con S. Pietro Martire e non piuttosto vedervi l’altro santo mendicante degli ordini che istituirono le farmacie nel’ambito  

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Fig. 7 - Madonna del Rosario, Kunsthistorisches, Vienna (particolare del ritratto di Giambattista Della Porta; Ritratto di Giambattista Della Porta (incisione dal Della fisonomia dell’huomo, Napoli 1610)

 

della devozione mariana S. Sisto - non avrebbe potuto ritrarre, come ancora di recente sostenuto, Marzio Colonna duca di Zagarolo, Cesare d’Este, o il principe Luigi Carafa di Stigliano, così poco somiglianti al personaggio (Fig. 7) che nel quadro solleva il manto di S. Domenico con la gorgiera alla fiamminga, indossata anche dal linceo Giovan Battista Della Porta, nell’incisione (Fig. 7), circolante dal 1602, nel ‘Della Fisonomia dell’huomo’ del 1610, che gli è speculare. Giambattista Della Porta aveva edito nel 1588 la ‘Phytognomonica’, la scienza dedicata ai segreti della natura, tra cui le erbe officinali.
Ma oltre ad una conoscenza visiva, reiterata negli anni romani, non vi è un’altra testimonianza del fatto che il pittore viaggiasse a Napoli o a Malta con Fabrizio Sforza Colonna sulle galere genovesi dei Doria o che avesse conosciuto Della Porta a Roma al di fuori degli ambienti domenicani.
Non diversamente a proposito delle Sette opere di Misercordia non vi è alcun documento che attesti che Caravaggio conoscesse personalmente Luigi Carafa di Stigliano al suo arrivo a Napoli, mentre da tempo è stato ritrovato il documento del 1606, che menziona Niccolò Radolovich, dove si afferma per il suo tramite ottenuta e pagatagli a Napoli la commissione di una pala della Madonna col coro d’angeli e quattro Santi: nella Sette opere di Misericordia, oltre alla Madonna nel coro d’angeli, di Santi ve ne sono sette, tra i quali S. Francesco, S. Nicola e S. Vito nelle opere caritatevoli e nelle posizioni genericamente indicate in quel testo archivistico che include la sua composizione. Vi era ritratto anche Galileo Galilei, che scruta il cielo, in cui appaiono la Vergine e gli angeli plananti dalle ali di cigno, sporto dalla grata del carcere nei panni di Cimone, e, in quelli di S. Giacomo, il poeta Giambattista Marino, che nei suoi sonetti affermo’ di aver conosciuto Caravaggio, e di immedesimarsi nel suo pennello, al pari di Giulio Cesare Gigli, l’uno e l’altro al punto di farne un manifesto letterario. 
Inoltre, era stato il padre teatino Ippolito Falcone, siracusano, nel Narciso al fonte a riferire un dialogo a proposito della sua scarsa inclinazione a dipingere angeli, un’altra testimonianza della sua frequentazione di letterati e compositori, che preferiva ritrarre nei suoi quadri piuttosto che angeli invisibili, ma anche delle comunità solidali, tra cui i francescani, impegnati nell’assistenza ai malati nelle epidemie dilaganti e ai feriti.
Anche della Salomé alla National Gallery di Londra da tempo è stata pubblicata la copia di Battistello Caracciolo dell’Abbazia di Montevergine, presumibilmente rinvenuta nel monastero benedettino negli anni Sessanta del secolo scorso e ben lontana, come una ‘Giuditta con fantesca’ (1966) dall’essere identificabile o meno con la testa di San Giovanni Battista, una donna ed una vecchia, degli inventari madrileni di Garcia Avellaneda y Haro, in lingua spagnola, quando il quadro “con diverse mezze figure ed una vecchia” di Michelangelo da Caravaggio era presumibilmente gia’ nel Palazzo Falconieri di Roma.

Ma non vi sono dubbi che un S. Francesco, che riceve le stimmate, fosse stato eseguito nel 1606 e - donato dal banchiere Ottavio Costa a Ruggero Tritonio e dai suoi eredi pervenuto ai friulani Fistulario - fosse stato trasferito alla metà dell’Ottocento alla chiesa parrocchiale di Fagagna nel Friuli e nel 1911 depositato nel Museo civico di Udine, dove, dopo un recentissimo restauro (2021), che lo ha liberato delle ridipinture, mostrandolo replica autografa, verrà esposto. Ne’ è possibile negare che l’originale che aveva nel 1626 il cardinale Francesco Maria Del Monte e, in vendita presso gli eredi nel 1628, fosse lo stesso annotato nelle cedole del Banco romano (ASR) di Ottavio Costa, dove era figurativamente descritto con il santo e i frati compagni e per il quale era creditore l’arcivescovo di S. Maria degli Angeli a Napoli, Ascanio Filomarino. Questa tela (Wadsworth Atheneum of Art, Hartford) poteva trovarsi nella Cappella Fenaroli di S. Anna dei Lombardi a Napoli nel secondo quarto del Seicento, quando e’ databile la postilla alla biografia di Caravaggio di Giulio Mancini (morto nel 1630) che la concerne, da una notizia di Teofilo Gallaccini (morto nel 1641). Risultava di proprietà di Ottavio Costa nel suo testamento del 1639 e Giovanni Michele Silos la dira’ nel 1673 ormai appartenente al Duca Caetani di Sermoneta, descrivendone i piedi nudi scoperti dal saio. Carlo Celano nel 1692, parlando dei tre dipinti di Caravaggio trovati da Gallaccini nella cappella Fenaroli di S. Anna dei Lombardi, non dirà più di un S. Francesco e anche Cochin non parlerà più di Caravaggio nella Cappella dei Fenaroli, né di un S. Francesco, ma solo di un S. Giovanni Battista “di buona mano.” Inoltre Sigismondo, che vi descrisse il S. Francesco del Bassano, che lo dipinse in piedi, dei tre quadri di Caravaggio della Cappella dei Fenaroli nominerà solo la Resurrezione. Quanto alla notizia di un “S. Francesco in piedi del Caravaggio” della chiesa di Santa Maria della Concezione dei Padri Cappuccini nella ‘Roma antica, e moderna’, edita da Gregorio Roisecco nel 1750, sembra certo che l’estensore si riferisse al S. Francesco in meditazione sulla morte, a figura intera, ora alla Galleria nazionale d’arte antica e moderna di Palazzo Barberini, proveniente dalla chiesa e convento di Via Veneto, e al suo uguale di Carpineto Romano, poiché non è seduto o sollevato da angeli, ma inginocchiato. 
Rispetto al quale, il revisore della guida nel 1750, prima della dispersione di alcune grandi gallerie romane, giungeva a distinguerlo dal S. Francesco disteso e a piedi nudi di Caravaggio del Duca Caetani di Sermoneta, non volendo segnalarne nessun altro, neanche a Palazzo Giustiniani, nemmeno quello in piedi e a mezza figura, famoso, di Domenico Passignano, che vi si trovava.

Nella brillante Negazione di Pietro a due figure sempre della Galleria Corsini a Roma, l’ancella, che sarà punita da Pietro con la morte per il suo inganno nell’offerta di denaro alla chiesa nell’altro episodio degli Atti degli Apostoli, è vestita come una regina - Semiramide e’ scolpita nel bassorilievo alle sue spalle - ed è Pietro supponente, mentre le porge uno specchio, a camuffarsi indossando un capperone per copricapo. Nel dipinto, inventariato come la Vanità e attribuito ad Angelo Caroselli, la donna ha tra le dita il velo trasparente per preservare le particole e vi è la fiasca di vetro sopra il marmo, a metà piena di vino, di un’accolita, che sono attributi dell’ancella ostiaria, smentita e smascherata dall’apostolo.
Nel Caravaggio della Certosa S. Pietro (Fig. 8), sbigottito e impaurito, ha una caratterizzazione fisiognomica, anche nell’età del Santo, tale da poterlo avvicinare alla testa di S. Pietro vecchio, da un altro modello, vivente o scultoreo, ritratta spirante nella Crocefissione di S. Pietro della Cappella Cerasi di S. Maria del Popolo (Fig. 8). L’acutezza sgomenta dello sguardo esterrefatto, che incenerisce l’ancella, nel gesto di ritrarsi e discolparsi protendendo le mani della Negazione, lo incarna strumento dell’apostolato, nell’immoralità della maschera aggrottata del Giuda che rigetta con odio l’accusa della donna, mentre lo riconosce alla fioca luce dell’alba: era dipinto sul suo volto ammutolito il ricordo della predizione di Cristo, che al terzo canto del gallo lo farà scoppiare in pianto. L’indifferenza dei giocatori, intenti solo alle monete, allude alla parabola della sorte di viltà di Saffira e del prezzo di una mercede in denaro, che avrà fatto dire a Bernardo De Dominici (op. cit., I, pag. 276), nella ‘Vita di Battistello Caracciolo’, senza esitazioni, quel quadro della Certosa di Caravaggio: “Ed indi si vide la maggiore di tutte l’opere del Caravaggio, che fu la Negazione di S. Pietro, esposta nella Sagrestia di San Martino; Questa veramente può dirsi una maraviglia dell’arte, colorita con tanta forza di verità, che abbatte qualunque opera le stà d’appresso… quella stupenda della Negazione di S. Pietro nella Sacristia della Certosa.”

Pompeo Sarnelli, nella ‘Guida de’ Forestieri’ (Napoli 1697, pag. 320), notandolo sempre nella sacrestia: “Il Crocifisso grande incontro detta scalinata è del Cavalier Giuseppino D’Arpino e la lontananza, ò vero prospettiva del Viviani. Sotto detto Crocifisso vi è un quadro maraviglioso di S. Pietro negante, del sublimissimo pennello del Caravaggio”, aveva acceso di meraviglia il volto impaurito ed esterrefatto del Santo che nega, come tutti gli storici che dimostrarono di averlo riconosciuto. Nella Morte della Madonna del Louvre l’iconografia di Pietro piangente (Fig. 8), quasi completamente calvo, con altrettanta intensità drammatica della luce e dell’ombra, rappresentava il suo raccoglimento nell’intercessione del perdono.

 

 

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 Fig. 8  Caravaggio, Negazione di San Pietro, Sacrestia della Certosa di San Martino, Napoli (dettaglio); Caravaggio, Crocefissione di S. Pietro, Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, Roma (dettaglio); Caravaggio, Morte della Madonna, Museo del Louvre, Parigi (dettaglio).

Ancora incerta finora l’interpretazione iconografica dell’apostolo, dai testi delle Sacre Scritture, nel servitore al fianco di Cristo delle Cene in Emmaus e nell’oste che insegna la strada, guida ed elemosiniere dei pellegrini, nelle Sette Opere di Misericordia, in cui ritrasse il pontefice Paolo V, Camillo Borghese neoeletto (1605). 

Che il dipinto della Negazione di Caravaggio fosse stato almeno una volta spostato nelle stanze del priorato del Convento certosino è attestato dalle ‘Notitie del bello, del curioso e dell’antico’ di Carlo Celano (Napoli 1692, Giornata Sesta), che, nonostante l’attenzione rivolta dall’autore alle opere napoletane di Caravaggio, non ne fa parola nella descrizione della Sacrestia della Certosa, ambiente che era stato descritto arredato anche da D’Engenio nel 1624: “Quì anche si vede una principal Sagrestia tutta depinta, ove a gran copia sono ricchi parati & ogni altro, che al culto divino appartiene.” Celano, identicamente agli altri autori, si era soffermato sulla Sala ed in particolare sul medesimo assetto dettagliato da Sarnelli negli stessi anni, ma era attratto dalle quattro grandi tele verticali della Passione di Lazzaro Tavarone detto il Bisaccione, che vi sono tuttora sulle pareti lunghe; la prima delle quali, con il Cristo flagellato, nelle stesse righe riferiva a Luca Cambiaso, senza far parola dei Profeti posti nelle lunette, se di Carlo Sellitto o di Francesco Fracanzano, che pure aveva dipinto con molte figure una Negazione di S. Pietro (già Collezione Boblot, Parigi). Anche la Pietà del Ribera, appena trasportata nella Cappella del Tesoro secondo Celano, nonostante il passaggio, nel secolo seguente, delle truppe di Napoleone, vi ha trovato ancora posto fino ai nostri giorni. Saranno le lunette, piuttosto, da una notizia della metà dell’Ottocento (Raffaele Tufari, Napoli 1850) ad essere riferite a Luca Cambiaso.

 

 

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 Fig. 9 - Negazione di S. Pietro, Pinacoteca Vaticana

Del tutto attinente, quindi, alla tela della Negazione di S. Pietro ancora oggi nella Certosa la descrizione di Bellori e degli storici dei secoli passati, dalla quale mosse tutta la generazione dei seguaci che conobbero non solo il quadro, ma anche il pittore, senza far eccezione per Lionello Spada, al quale finora e’ stata riconosciuta un solo dipinto della Negazione, quello a tre figure delle Gallerie Nazionali di Parma.
Ancora in un’altra Negazione (Fig. 9) alla Pinacoteca Vaticana, è ripetuto il gesto dell’apostolo di schermirsi alzando le mani, una delle quali in controluce mostra sempre la palma distesa, analogamente alla servetta. Il dipinto, stimato proveniente dalla collezione Sacchetti, chiaramente ascritto alla Scuola del Caravaggio nelle Gallerie del Museo Capitolino da Ridolfino Venuti (Accurata e succinta descrizione topografica di Roma Moderna, Roma 1766, I e II, Parte III, pag.791): “S. Pietro, coll’Ancilla ostiaria, della scuola del Caravaggio” era stato - nella versione quasi identica acquistata alla galleria di Paul Rosenberg a New York (già Raccolta Ernesto Rivera Schreiber) nel 1982 dal Musée della Chartreuse di Douai - restituito al Pensionante del Saraceni da Pierre Rosenberg nel 1984. Sempre sulla scorta dell’identificazione nel gruppo di opere di questo ignoto pittore di Roberto Longhi, ma anche in base al riconoscimento nel 1948 del soggetto di una Negazione, da parte di Lionello Venturi ed altri esperti, che fino a quella data, veniva ravvisato in ‘Giobbe deriso da sua moglie’, poiché la rustica scenetta è priva del gallo che canta. Ma il dipinto Vaticano era stato “Un S. Pierre du Caravage” nell’edizione dell’‘Itinerario’ romano di Andrea Manazzale del 1802, che vi scorgeva altrimenti la luce dell’alba del passo dei Vangeli; una tela sempre esposta al pari del S. Giovannino Pio (Righetti 1833) e una terza copia della quale è nella National Gallery of Ireland. Anche questo celebre quadro, enigmatico al punto da poter essere biblico, se non ‘osceno’, cioe’ eretico, o profano, poteva essere quello citato da Luca Ciamberlano nel documento dell’insolvente pagatore nei confronti di Guido Reni, ‘nel quale dissero’ fosse dipinta l’effigie di S. Pietro con l’ancella, la cui committenza Sacchetti, che possedevano il maggior numero di quadri di Reni, non esulava certo dalle sue ambizioni. Non vi era, però, alcuna scena di giocatori ad un tavolo, che avrebbe sollevato la curiosità e l’interesse di collezionisti ed artisti, che fossero anche, al pari di Reni, giocatori accaniti. Lo studio di Lionello Venturi pubblicava anche la fotografia Alinari del quadro della Certosa di S. Martino di Napoli (1948, Tv.VII), soggettandolo “S. Pietro che rinnega Gesù” della Scuola del Caravaggio, che presumeva disperso.
Ripensare l’attività del Pensionante del Saraceni, dall’anonimia dell’intero gruppo di opere associategli stilisticamente, in funzione della cronologia di De Ribera, alias Maestro del Giudizio di Salomone, e del distinto gruppo di opere anonime, scivolerebbe il paragone anche di un altro dipinto, il Venditore di Frutta dell’Art Museum di Detroit. La sua datazione dovrebbe anticipare il 1615 e non dipendere da altro che dalla frontalita’ del S. Pietro della Negazione di Napoli, cogliendone in pieno la caratterizzazione grottesca di genere nel pretesto di ritrarre il santo nascondersi tra i servi, fino al dettaglio della moneta tra le sue dita, ancora una volta allusiva alla vanità di una mercede in denaro della serva di Pilato, incorruttibile la sottomissione del Santo, che lo aveva riscattato dal tradimento. La probabilità, ventilata dalla critica, che questa tela fosse in origine di casa Sannesio, per quanto indimostrata, non contrasta con la tesi che l’altra fosse a Roma ritenuta di Caravaggio nel 1613.

Quanto alle misure della Negazione di Pietro di Napoli (cm.140x200) può dirsi che corrispondano grosso modo a quelle della Cena in Emmaus di Londra (cm.140x195), mentre di gran lunga superiori sono le proporzioni della tela della Presa di Cristo Bigetti ora a Roma (cm.175x245) e inferiori della tela di Odessa (cm.134x172,5), annunciata in restauro presso l’ICR, dell’Incredulità di S. Tommaso Giustiniani a Potsdam (cm.107x146) e dell’Incoronazione di spine a Vienna (cm.127x165): soltanto i primi due potevano far parte di un’unica serie di storie della Passione dispersa e dipinta nel secondo periodo della sua produzione artistica, più generalmente definito oscuro, del quale avesse fatto parte il Cristo che porta la Croce della commissione Di Giacomo, che era stata già dipinta nel 1609 e non più ritrovata. 
La singolare coincidenza di dimensioni delle prime due tele induce a non sottovalutare la portata della ricostruzione documentale della serie detta Di Giacomo, nella prima metà del secolo scorso per lo più ignorata nel panorama critico delle commissioni a Caravaggio, al punto tale da poterne elencare solamente almeno tre dei soggetti, se replicati o meno da quelli resi noti dalle fonti storico-letterarie più lette. La molteplicità di memorie storico-descrittive concentrate sulla Negazione di S. Pietro, esposta dal Seicento in uno dei monumenti più famosi della città di Napoli, in cui avevano lavorato i maggiori artisti italiani del secolo, compreso il Cavalier Giuseppe D’Arpino - che deteneva nella sua bottega nel 1607 il più consistente gruppo di opere caravaggesche della Galleria Borghese, sciolte dalla confisca nel 1608 - non si presta a smentire alla stregua di diceria corrente la relazione che ne diede Bellori alle stampe nel 1672, che la centro’ alla lettera dei passi rispettivi dei Vangeli. Trattandosi di episodi complessi e a più figure è possibile che l’individuazione dei personaggi raffigurati sia sfuggita al dibattito critico meno recente, volto, com’è ancora oggi, a ricostruire il percorso collezionistico anche delle copie, e lasciato in sospeso da Giovanni Baglione il discorso sulla produzione napoletana del pittore, della quale disse solo: “...e quivi (n.d.r.: a Napoli) operò molte cose.” Anche il dipinto del Musée des Beaux Arts di Rouen, ritenuto una Flagellazione che dovesse far parte di un’unica serie, al suo acquisto nel 1955, senza alcun confronto al passo di Bellori sul S. Sebastiano di Caravaggio, che invece rispecchia, ha misure discretamente differenti (cm.135x175), pur essendo dello stesso formato: insieme ai suoi uguali in collezione privata, uno dei quali, non piu’ rintracciato (Terzaghi 2019), le misure rilevate nella recente mostra napoletana collimano con le tele della Presa di Cristo: non tale da poterlo accostare agli episodi della Passione dipinti a Napoli. 
Le dimensioni della Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera (cm. 141x175) approssimano quelle della Presa di Cristo di Palazzo Pitti, in cui era il sottostante tavolato - del quale la tela in tavola e’ stata di recente alleggerita (Firenze 2019) - a misurare quasi altrettanto (cm. 135x170). Confronto che lascia presumere che, poiché il S. Sebastiano non e’ frecciato, il fraintendimento con la scena della Passione risalga ad un periodo di gran lunga successivo al testo belloriano, che - dipinto per i Mattei, ai quali era appartenuto il S. Sebastiano di Caravaggio - afferma che fosse stato portato a Parigi, dove pure non sarebbero mancati copisti.
La Negazione di Pietro era giunta alla metà dell’Ottocento intatta, non solo nel titolo (Tufari 1850), e quindi al Novecento, elencata da Virgilio Saccà tale e quale tra le opere di Caravaggio e nella chiesa della Certosa di San Martino nel 1906, pubblicandone Biancale la riproduzione in bianco e nero nel decennio seguente. 
Lo stesso Sacca’ nel 1907 aveva commentato il documento dell’archivio privato della nobildonna messinese Flavia Arau di Giampaolo della commissione Di Giacomo, relativa all’originale perduto della Salita al Calvario: “Nota delli quatri fatti fare da me Niccolao Di Giacomo: Ho dato la commissione al sig. Michel’Angiolo Morigi da Caravaggio di farmi l(i) seguenti quatri: Quattro storie della Passione di Gesù Cristo da farli a capriccio del pittore dalli quali ne finì uno che rapresenta Christo con la Croce in spalla, la Vergine Addolorata e dui manigoldi uno sona la tromba riuscì veramente una bellissima opera e pagate oz. 46 e l’altri s’obligò il pittore portarmerli nel mese d’Agosto e pagarli quanto si converrà da questo pittore che ha il cervello stravolto.” Anche in questo soggetto, conosciuto attraverso copie, vi era un’allusione agli elementi sensibili della notte della Passione. La data del documento era ricondotta da Saccà all’agosto del 1609, presumendo l’impegno assunto mentre il pittore si trovava a Messina, consegnata la Resurrezione di Lazzaro nel mese di giugno di quell’anno alla chiesa dei padri Crociferi.

L’estrazione napoletana della Negazione di Pietro e una sua esecuzione al rientro di Caravaggio a Napoli, quando Fanzago a sua volta vi intraprese la sua attività, sarebbe documentata dalla giacenza del dipinto nella sacrestia della chiesa alla metà del Seicento (1656), insorto un contenzioso tra Fanzago e la Certosa, iscritto nel 1661 e registrato nel 1683, quando l’architetto era morto da un quinquennio. L’estratto della causa è stato trascritto più volte dalle filze dei Monasteri Soppressi (F. 2051) dell’Archivio di Stato di Napoli (De Cunzo 1967): per la Certosa patteggiò con l’architetto il Padre Guascardo (“Guaxardo”) del Collegio di Chiaramonte. Non solo Bellori, ma anche Filippo Baldinucci avrà detto, con un’allocuzione ora sciolta, che la storia della Negazione di S. Pietro era il quadro nella Certosa che Caravaggio vi aveva dipinto.
In ognuna delle tele enumerate sembra di sentire le parole di Giulio Mancini nelle Considerazioni sulla “schola del Caravaggio”: “Questa schola in questo modo d’operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre ch’opera; fa bene una figura sola, ma nella compositione dell’historia et esplicar affetto, pendendo questo dall’immagination e non dall’osservanza della cosa, per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che vi vogliano, essendo impossibil di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che rappresentin l’historia con quel lume d’una fenestra sola, et aver un che rida o pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor figure, ancorché habbin forza, mancano d’affetti, di gratia.”
Senza essersi soffermato né sulla Vocazione di Matteo in particolare, né sulla Negazione di Pietro di Napoli, Mancini astraeva dai dipinti di genere l’idea di “quel lume d’una fenestra sola” nella storia, che, nei due di Caravaggio, a differenza dei seguaci, appare essere una luce proiettata realmente dalle finestre (Venturi 1926) sia della Cappella Contarelli che della Sacrestia di San Martino, e, in quest’ultima, come nei dipinti da cavalletto del periodo romano, piu’ che immaginaria, poiché non vi e’ alcuna finestra. La luce che aveva fatto dire di lui a Giovan Battista Agucchi nel Trattato della pittura (ed.1646), un decennio dopo la sua morte: “...disposto di seguire del tutto la similitudine” dello specchio, l’artificio che riconobbe anche Baglione. Sarà Carlo Cesare Malvasia a dire che si trattasse di una sua ingegnosa invenzione l’operare servendosi di un modello solo, come lo stesso pittore Lionello Spada, che si era messo al chiuso di uno stanzino e vi veniva osservato dal pittore da un buco della porta in una sorta di camera oscura, in cui filtrava la luce: tutti gli altri dipinti appaiono coaptati nella mimesi delle due tele, fingendovi fiamme e riflessi. 
Non soltanto lo studio critico, fotografico e cinematografico di Pier Paolo Pasolini (1974, edito nel 1999) nel Novecento avrebbe parlato poeticamente del suo stile, ma quello immaginifico dell’ingegnere Carlo Emilio Gadda nel Club delle ombre (1949): “...e i piumati bravi la cui adolescenza risfolgora e le sottili spade posano, alla tavola del gioco, nella tela segreta del Caravaggio” e via dicendo molti altri scrittori. Probabilmente nella prossima fine del pittore non vi sarebbe stata che la vanagloria, in un’età di passioni, di deliri e di soldatesche, il secolo della scienza, di far tacere per sempre, non tanto la sua spada, che forse non valeva che a difendersi, ma il suo pennello invisibile, che sulla tela, senza decoro e retorica, dipingeva gli effetti della luce, tingendo il buio di significati.
Vincenzo Mirabella aveva dato nel 1613 una testimonianza biografica del suo incontro con Caravaggio, quando lui stesso aveva rilevato le catacombe e la chiesa di Santa Lucia alla Marina di Siracusa nella quale era stata seppellita: non c’è ragione di dubitarne poiché il pittore aveva eseguito il Seppellimento di S. Lucia della chiesa. In quella testimonianza l’Alagona per primo aveva sottolineato l’acutezza dell’ingegno di Caravaggio nel proferire a proposito della caverna del tiranno della città: “Ond’ei [n.d.r.: il Tiranno di Siracusa] fece questo carcere [n.d.r.: l’Orecchio di Dionisio] à somiglianza a’ un Orecchio.”
Nella Negazione di S. Pietro della Certosa di San Martino, in modo del tutto originale, è l’ancella a voltarsi nell’udire il canto del gallo: un moto visionario e sensibile del quadro, che certo sarebbe stato rifiutato da ogni cardinale romano, compreso il potente cardinal nipote Scipione Borghese, perché vi aveva segretamente ritratto, quasi uno studio anatomico, alla stessa luce dell’ancella, nel Santo calvo che piu’ volte si era rivoltato al suo maestro, l’austero domenicano piu’ disobbediente del secolo, che nel carcere si era finto pazzo, Tommaso Campanella.
Verosimiglianza, dinamica della luce e dell’ombra, immedesimazione nella moltitudine, realismo della storia sacra fino alla cronaca del fatto presente erano raffigurati dalla Negazione di S. Pietro, quadro più di ogni altro censurabile dal biasimo di pittore di storia eterogeneo e sovversivo che gli fu tributato.

 

                                                                                        

                             

  

                 

                         

            



                

           



                                          

     

   




     



                      

                         





            

                          
















                  



                        

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