La fluorescenza dei raggi X (Energy dispersive), EDXRF, probabilmente la più utilizzata tecnica analitica per lo studio dei materiali e delle tecniche nel campo dei Beni Culturali da più di tre decenni, sembra non volersi mai fermare riservando sempre novità di notevole interesse. Dopo essere stata una tecnica analitica di laboratorio [1] ed essere successivamente una delle prime impegnate nelle analisi non distruttive, anche delle opere d’arte [2], è divenuta dagli anni Novanta dello scorso secolo la tecnica di analisi in situ per eccellenza, grazie allo sviluppo di sistemi mobili e portatili [3], che hanno seguito la progressiva miniaturizzazione dei loro componenti di base ossia: (i) i rivelatori, (ii) i tubi radiogeni ed infine (iii) l’elettronica di acquisizione e di elaborazione dei dati (vedi Figura 1) [4].
Ciò che è accaduto negli ultimi anni è stato uno sviluppo sorprendente, almeno per i non addetti ai lavori, che sembra quasi averle cambiato pelle, divenendo una tecnica di produzioni di immagini (mappe elementali – vedi Figura 2) e non più di analisi degli elementi, anche in alcuni casi quantitativa, come per i metalli. Questo cambiamento sembra essere accolto con estremo favore dalla maggioranza degli addetti ai lavori che preferiscono le immagini ai numeri.
E' quasi inutile presentare la Fluorescenza dei Raggi X (EDXRF) ai lettori di questa rivista che hanno un livello di conoscenza delle tecniche abbastanza elevato, comunque possiamo in breve presentarla indicando quali sono i suoi più comuni impieghi nella diagnostica per i Beni Culturali. La EDXRF è impiegata soprattutto per la diagnostica su superfici dipinte, metalli, ceramiche, e vetri; per identificare, tramite l’analisi degli elementi, i materiali (ad esempio i pigmenti) utilizzati, i processi di restauro o di degrado, le tecnologie di produzione adoperate o anche per rivelare elementi spuri che potrebbero portare a identificare il manufatto come un falso [5]. Grazie alla disponibilità di sistemi mobili e/o portatili le indagini vengono in genere effettuate in situ utilizzando opportuni sistemi di posizionamento. La EDXRF può essere utilizzata in modalità non distruttiva, anche se occorre avere qualche cautela nella valutazione dei risultati, in quanto la superficie dei manufatti e’ fortemente disomogenea per presenza di più fasi o di stratificazione (come per le superfici dipinte).
Fig. 2 - Le mappe elementali sono prodotte utilizzando un singolo picco di fluorescenza. Quindi su un dipinto che contiene diversi pigmenti ne vengono prodotte numerose in una singola scansione
La radiazione impiegata nell’eccitazione della fluorescenza e’ a raggi X, che, alle intensità tipiche utilizzate nella gran parte degli strumenti attualmente in uso, non producono danni sull’opera (ma anche sugli operatori), se si adottano le corrette misure di protezione. L’identificazione degli elementi avviene mediante la rivelazione dei fotoni (raggi X) che vengono prodotti a seguito dell’eccitazione dei singoli atomi che emettono, a secondo dell’elemento, fotoni di una determinata energia. Tali energie, almeno per le righe caratteristiche K ed L degli elementi normalmente rivelati nel caso di Beni Culturali, non dipendono dal composto cui l’elemento è legato.
Il processo con il quale avviene l’identificazione e l’eventuale quantificazione dei vari elementi (componenti), è eminentemente statistico, per cui, in genere, un po’ come accade per gli scrutini elettorali, occorre attendere tempo prima di avere indicazioni valide e un tempo più lungo per avere risultati certi. Sempre seguendo la precedente analogia questi tempi sono minori per gli elementi più abbondanti e decisamente maggiori se l’elemento è minoritario. Questo fa della EDXRF uno strumento difficile da impiegare se non si ha una buona conoscenza della tecnica. In particolare, come accade in diagnostica medica, occorre quasi sempre un esperto che legga ed interpreti i dati in quanto i risultati difficilmente si leggono da soli; un esperto scientifico abituato a leggere i risultati EDXRF su superfici dipinte vede molte più cose di un non esperto, anche se professionalmente ben qualificato come può essere un restauratore o uno storico. In qualche modo si può affermare come sia l’uso che fa la funzione, evocando così la famosa teoria evoluzionistica di Lamarck. Questo è quello che sicuramente è accaduto con la EDXRF, che, essendo stata impiegata massicciamente per lo studio dei materiali antichi, ha generato una conoscenza che ha permesso di considerarla attualmente come una tecnica diagnostica dalla quale non si possa piu’ prescindere in tali studi.
Quello che bisogna capire è che molto spesso la possibilità di fare un’analisi quantitativa è fortemente limitata dalla disomogeneità del campione analizzato, piuttosto che dallo strumento di misura. Questo ha determinato la spinta a ideare tecniche di microanalisi in molti casi con la possibilità di generare immagini microscopiche: emblematico è il caso della microscopia elettronica a scansione (SEM), che può essere considerata attualmente la tecnica da cui partire per studiare materiali disomogenei e compositi anche su scala nanometrica [6]. Qualcuno sicuramente ricorderà che nello sviluppo del SEM il punto di partenza è stata la considerazione che la microscopia classica aveva dei limiti teorici per la risoluzione laterale; limiti che sarebbe stato possibile superare solo costruendo microscopi a raggi X che, avendo una minore lunghezza d’onda, avrebbero consentito di superarli fino a portarli sotto al micron. Tali microscopi sono stati costruiti con l’impiego di sorgenti X molto avanzate come la Luce di Sincrotrone [7], essi non sono però divenuti strumenti di uso comune almeno nelle analisi di routine e comunque non per la realizzazione di strumentazione portatile. Quello che è accaduto per la EDXRF è naturalmente un’altra storia, che sicuramente si è sviluppata grazie all’esempio di ciò che è stato fatto con la SEM. Le mappe elementari, e la loro grande utilità nello studio di materiali disomogenei [8], sono state create con le tecniche SEM che permettono di combinare la grande capacità di fare immagini microscopiche con la capacità di crearne utilizzando la microanalisi a raggi X. Quindi il segreto è quello di abbinare immagini in altra risoluzione a mappe elementari. Con la SEM ciò è possibile con un unico strumento, mentre al momento con la macro XRF (MA-XRF) si può fare utilizzando, ad esempio, immagini in alta risoluzione o addirittura prodotte con microscopi. In ogni caso, a scanso di equivoci, con le attuali tecniche di scansione con XRF si raggiungono su scale millimetriche (ma con la possibilità di scansionare aree molto estese, anche di metri quadri).
Lo sviluppo dei sistemi MA-XRF e’ avvenuta, a partire dal 2011, grazie agli avanzamenti tecnologici con l’introduzione dei rivelatori Silicon Drift (SDD) e la estrema miniaturizzazione delle sorgenti radiogene [9, 10]. Anche gli sviluppi della robotica e la miniaturizzazione delle catene di conteggio hanno facilitato la realizzazione di tali scanner (Figura 3).
Fig. 3 - Miniaturizzazione di serie dei componenti.
I numeri che sono alla base di questo sviluppo tecnologico sono: (i) milioni di conteggi al secondo che è possibile acquisire con uno o più rivelatori SDD, (ii) elevati flussi di raggi X, eventualmente concentrabili su superfici piccole mediante opportune ottiche, che è possibile ottenere con sorgenti radiogene di dimensioni molto ridotte e di bassa potenza, che possono rimanere accese per ore senza deteriorarsi, (iii) velocità di scansione > 2 mm/s che significa fare 2 cm2 al minuto (quindi un foglio A4 in poco più di otto ore e mezzo) grazie alla completa robotizzazione dei sistemi di scansione. Questi numeri saranno sicuramente migliorati anche se è difficile pensare si possa scansionare un foglio A4 in meno di un minuto come attualmente può fare uno scanner ottico.
Come si arriva a questi numeri? I singoli spettri sono acquisiti in meno di 300 ms (si può arrivare a tempi di acquisizione minori utilizzando sorgenti di più elevata intensità) e ciascuno spettro ha in media 8260 conteggi di cui circa l’80% può essere utilizzato per informazioni relative ai vari elementi. Ovviamente, il fattore che limita il sistema è la brillanza delle sorgenti X convenzionali, che non consentono di acquisire un milione di conteggi al secondo. È utile ricordare che quando furono realizzati i primi XRF scanner utilizzando come sorgente la luce di sincrotrone, venne detto che le sorgenti convenzionali non avrebbero permesso di ottenere risultati utili. Questo nodo non si è del tutto sciolto, però l’utilità delle informazioni ottenute fa sì che si aspettino ore per avere un risultato, senza spazientirsi troppo. Queste considerazioni servono solo a mettere in evidenza che ci sono margini di miglioramento. L’impiego di più rivelatori va visto come una possibilità di aumentare l’efficienza geometrica nell’acquisizione dei fotoni emessi, anche considerando la bassa statistica dei fotoni rivelati e quindi l’utilità di migliorare la statistica dei conteggi e, infine, la sensibilità della tecnica.
Legato al problema delle sorgenti è quello della risoluzione. Attualmente, utilizzando opportune ottiche a raggi X (che però riducono fortemente le intensità della sorgente) si arriva a risoluzioni intorno a 35 µm, senza ottiche si può arrivare a mezzo millimetro. Nel seguito possiamo comunque prendere un millimetro come valore di riferimento. Il problema è quello di trovare un compromesso tra le dimensioni dell’area scansionata e la risoluzione, tenendo conto dei tempi necessari per l’acquisizione dell’immagine. Possiamo fotografare un dipinto con un solo scatto perché usiamo una lente, comunque la risoluzione non è eccellente se il dipinto è grande. Usando un sistema di scansione la risoluzione migliora, anche se è difficile, con uno scanner ottico [11], arrivare alle decine di micron. Prendiamo ad esempio un’immagine scansionata a 300 ppi - va notato che nel caso di un’acquisizione è meglio parlare di ppi (point per inch) piuttosto che di dpi (dot per inch) - la distanza tra i punti (pixel) è in questo caso di ~ 85 µm. Se si acquisisce un punto per ogni millimetro, si ottiene una risoluzione di 25.4 ppi, che, nel caso di un foglio A4, significa un 6.237.000 di punti, quindi, di spettri acquisiti. Si tratta di una quantità di dati molto grande, che non è possibile trattare senza usare/costruire un sistema di elaborazione appropriato. Questo è quello che è stato fatto nel programma di sviluppo di scanner XRF da noi portato avanti negli ultimi tre-quattro anni. Se si volesse utilizzare una risoluzione maggiore, ad esempio di 100 µm, il numero di spettri diverrebbe 6.2 107, comportando cioe’ un tempo di tre giorni e mezzo (85 ore) per scansionare un semplice foglio A4, il che è attualmente improponibile, a meno che non si scansioni il dipinto ad una velocità molto maggiore dell’attuale. Per farlo, l’unica possibilità è quella di acquisire molti più conteggi per secondo (cps), utilizzando sorgenti molto più intense delle attuali (senza però arrivare a sorgenti che non possono essere trasportate o addirittura portate in laboratorio come quelle di luce di sincrotrone). In un moderno scanner ottico da tavolo professionale (che praticamente tutti noi abbiamo in ufficio) si usano migliaia di rivelatori che scansionano una riga alla volta ed il carrello avanza con una velocità tale da digitalizzare un foglio A4 in 10-20 s, cioè scansionando milioni di pixel al secondo. Va comunque tenuto conto che uno spettro X è composto in genere di 1024 numeri interi (di almeno 12 bit) mentre un pixel di un’immagine visibile da’ tre numeri da 8 bit; quindi, un pixel in una immagine XRF ha un peso notevolmente maggiore e non sarebbe comunque trasmissibile ad una velocità di milioni di pixel al secondo, come accade per un’immagine acquisita con uno scanner o una fotocamera.
Quello che abbiamo realizzato con il nostro progetto è stato uno sviluppo, che riteniamo assolutamente necessario per migliorare l’impatto degli scanner nelle indagini sui Beni Culturali e cioè la completa trasportabilità del sistema. Per ottenerla, i dispositivi di scansione (Figura 4), che sono la parte più ingombrante, sono stati ottimizzati e scomposti in moduli, in modo da rispondere in maniera più efficace alle necessità di ogni singola applicazione. Per quanto riguarda la strumentazione si sono fatte scelte conservative, evitando, ad esempio, di usare ottiche capillari, che richiedano particolare attenzione nel trasporto. Sono stati così realizzati diversi moduli di scansione di dimensioni e prestazioni notevolmente diverse. La riduzione in moduli del sistema è stata possibile soprattutto con la realizzazione di un software di acquisizione, che potesse essere facilmente utilizzato per i diversi sistemi e consentisse una configurazione flessibile di tali sistemi (figura 5). Alcuni di tali sistemi sono completamente mobili, come quello utilizzato presso lo scavo archeologico di Koumasa nell’Isola di Creta (portato in una valigia in aereo ed assemblato in situ); altri trasportabili, come quelli utilizzati per diverse misure presso Musei e Gallerie come, ad esempio, quello utilizzato a Palazzo Barberini (Galleria nazionale d’arte antica, Roma) per la scansione completa della Fornarina di Raffaello [12,] o alla Galleria Borghese su alcuni dipinti di dimensioni più ridotte (figura 6). La modularità è a nostro avviso la carta vincente.
Fig. 4 - Lo scanner è composto da diversi moduli, come mostrato in figura. Il più ingombrante è il sistema di scansione le cui dimensioni possono essere ridotte moltissimo, se si fa la scansione di un oggetto piccolo (vedi il riquadro in alto a sinistra).
Fig 5 - L’organizzazione dei dati nel software XISMuS [14], sviluppato per i sistemi MA XRF, è centrata sul Datacube.
Come appaiono le mappe? Esse hanno un peso decisamente inferiore della corrispondente immagine visibile, in quanto la loro risoluzione è molto minore. Utilizzando opportune tecniche di elaborazione è possibile fare una sovrapposizione o presentarle su un video affiancate. Tenendo conto che la risoluzione normalmente impiegata per un’immagine video è di 72 dpi, una mappa elementale di 30 x 30 cm2, acquisita con una risoluzione di 50 dpi, apparirebbe, quindi, sul video con una risoluzione ottimale in un frame da 10 x 10 cm. Esattamente quello che si sta vedendo con le mappe acquisite attualmente, che non appaiono sgranate sul video.
Cosa può rivelare una mappa elementare ad un diagnosta, ad un restauratore, ma anche ad uno storico? La stretta connessione che c’è tra elementi chimici e pigmenti è ben nota a tutti [14]: quindi una mappa di un particolare elemento mostra la distribuzione nel piano del pigmento ad esso associato (sempre se l’associazione è univoca), o anche solo la presenza di un certo pigmento in particolari aree del dipinto. Per fare degli esempi molto semplici, la presenza di alcuni elementi caratteristici di pigmenti moderni, come lo zinco, indicano e visualizzano le eventuali zone di restauro; la presenza di un elemento-pigmento, che non corrisponde al colore che è visibile in superficie, indica la presenza di strati pigmentati nascosti e il riscontro con altre tecniche può permettere di verificarne l’ipotesi. Questo può portare a diverse conclusioni come la presenza di un sottostante dipinto, un pentimento o un restauro. Il rilevamento di forme nell’area con pigmento anomalo (che può essere fatta con mappe elementali e non con singole misure XRF) può farci propendere per un’ipotesi o l’altra.
Veniamo quindi a individuare il principale merito delle mappe elementali che spostano apparentemente l’indagine diagnostica dal quantitativo-analitico al qualitativo-segnico. La stessa cosa, su una superficie dipinta, può essere individuata in maniere molto diverse, in alcuni casi l’indagine analitica risulta la modalità più semplice, sempre che il risultato sia univoco. In altri casi il risultato dell’analisi è ambiguo, per cui bisogna aiutarsi con l’individuazione di forme-segni particolari con le mappe, per arrivare ad una ipotesi più complessa. Questo non significa che la XRF, producendo immagini, divenga qualitativa, più semplicemente il procedimento diagnostico, come accade in molti altri casi, ad esempio nella diagnostica medica, passa attraverso l’analisi quantitativa dell’immagine con l’individuazione oggettiva, ed in alcuni casi morfometrica, di segni. Quindi sempre in una dimensione quantitativa.
Fig. 6 - Lo scanner MA XRF in funzione sulla Fornarina di Raffaello.
Con una singola scansione XRF si producono diverse mappe elementali (Figura 2), il che è sicuramente un grande vantaggio, ma anche un grande problema per l’interpretazione dei dati. Chi è pratico di analisi del colore sa che l’immagine di un dipinto può essere scomposta in tre immagini che corrispondono alle tre componenti cromatiche. Manipolando opportunamente tali immagini, eventualmente facendo alcune trasformazioni, è possibile fare numerose utili riflessioni e deduzioni, che possono portare a ipotesi diagnostiche o critiche molto interessanti. Ovviamente, nel caso del colore l’esperienza ha portato a sviluppare tecniche di elaborazione molto sofisticate ed efficaci. Nel caso delle mappe elementali prodotte con la MA-XRF si sta ancora imparando. Comunque, alcune idee sono già disponibili, come quella di effettuare sovrapposizioni di più mappe elementali tra loro o con l’immagine digitale del dipinto, o quella di fare correlazioni tra mappe in modo da verificare se due elementi caratterizzano lo stesso pigmento o due pigmenti sono impiegati insieme. Per lavorare con le mappe occorre disporre di un supporto di elaborazione efficiente [14], preferibilmente integrato con il software di acquisizione e archiviazione dei dati prodotti con lo scanner. E’ il motivo per cui molto del nostro lavoro è stato dedicato a questo scopo.
Le mappe sono uno strumento straordinario per la ricostruzione delle tecniche pittoriche nel caso di superfici dipinte, ma anche di ceramiche, vetri ed in genere superfici lavorate. Ovviamente alcuni elementi sono così diffusi e abbondanti sulla superficie che è possibile intravedere le forme presenti nel dipinto. Mancano però le parti che sono state dipinte con un altro o altri pigmenti. Altre mappe sono utili perché permettono di individuare le zone in cui è stato utilizzato un pigmento eterologo o anomalo, ad esempio per un restauro o per una falsificazione. In genere nel fare le operazioni come le correlazioni o i confronti è meglio individuare un’area di interesse in modo da migliorare i risultati ottenibili e la loro lettura.
Una superficie dipinta è una sovrapposizione di strati, così come sono stratificate le superfici di moltissime opere con finalità o cause molto diversificate (estetica, di protezione, di degrado). La penetrazione dei raggi X nei materiali è in genere maggiore di quella della radiazione visibile (la luce); questo è un fatto ben noto a tutti che in genere attribuiscono questa proprietà ai raggi X fin dalla loro scoperta (basti pensare alla radiografia). Quello che accade nell’intervallo di energie, cui appartengono la maggior parte delle righe X di emissione dei principali elementi, utili alle indagini diagnostiche non distruttive, è che l’assorbimento varia fortemente anche per piccole variazioni di energia dei fotoni. Queste considerazioni portano a diverse conseguenze, tra cui la prima è che l’immagine della mappa elementale non è quella del solo strato superficiale, ma ha contributi anche dagli strati più interni. Occorre notare che ciò accade anche per le immagini del visibile, anche se con modalità diverse. Basti pensare al problema dei colori più o meno coprenti ed alle velature negli affreschi. La seconda è positiva: questo assorbimento differenziale, anche di fotoni generati dallo stesso elemento con processi alternativi, ma in rapporto statistico fisso, può essere utilizzato per misurare lo spessore di uno strato superficiale [15] o, in alternativa, individuare in quale strato sta l’elemento osservato. In pratica si può stabilire se un certo pigmento è presente in uno strato più interno o in quello superficiale.
Per concludere, le mappe elementari possono essere la chiave per fare un’operazione, che è stata da sempre pensata, ma mai possibile: ricostruire un dipinto partendo dai materiali che lo compongono in maniera scientificamente più rigorosa. Copiare un dipinto è un’operazione che i pittori fanno da sempre, spesso con un certo rigore: cioè utilizzando gli stessi materiali e tecniche che loro pensano abbia utilizzato l’autore. Spesso i risultati sono molto buoni e suggestivi. Cosa diversa è individuare puntualmente materiali e tecniche con la diagnostica e fare una simulazione a partire dalle forme, che possono essere accuratamente ricostruite da immagini digitali del dipinto. In questo caso non è una copia ma una simulazione in quanto le scelte arbitrarie nella ricostruzione sono ridotte al minimo.
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[11] https://en.wikipedia.org/wiki/Image_scanner
[12] A. Cosma, C. Merucci e S. Ridolfi, “Raffaello da vicino: nuove indagini e nuove scoperte sulla Fornarina.” Officina Libraria, Milano, Italy (2021). ISBN 88-3367-131-3.
[13] “La fabbrica dei colori: pigmenti e coloranti nella pittura e nella tintoria a cura di Simona Rinaldi, Il bagatto”, (1986), 572, ISBN 9788877550507
[14] S. A. Barcellos Lins, B. Bremmers e G. E. Gigante, “XISMuS – X-ray Fluorescence imaging software for multiple samples.” SoftwareX, 12 (2020), 100621, DOI: 10.1016/j.softx.2020.100621
[15] Barcellos Lins, S.A., Gigante, G.E., Cesareo, R., Ridolfi, S., Brunetti, A. “Testing the Accuracy of the Calculation of Gold Leaf Thickness by MC Simulations and MA-XRF Scanning”, Applied Sciences 10(10), (2020), 3582 DOI: 10.3390/app10103582
Giovanni E. Gigante
Sergio A. Barcellos Lins
Dipartimento di Scienze di Base e Applicate Sapienza Università di Roma
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