Annibale Carracci, Caravaggio e l’Appia Antica

Annibale Carracci, Caravaggio e l’Appia Antica

 

Italia Nostra, Parco Archeologico dell’Appia Antica 

Sabati di Arte e Cultura - Viaggiare nell’arte e nella letteratura del paesaggio italiano - Conversazioni Concerto a cura di Annalisa Cipriani

Complesso di Capo di Bove, 23 aprile 2022

L’Appia antica e’ un monumento vivo, che ha coinvolto emozionalmente il mondo intero e non solo ogni romantico turista attraverso i secoli. La sua natura sepolcrale, memoria oltre che religione e cultura del passato, brilla in ogni firmamento da antiquario, da turista appassionato e da amante del paesaggio. Monumenti focali dell’Antico sull'Appia, le Porte Latina e S. Sebastiano, squadrate e in prospettiva dal di fuori del cerchio delle Mura Aureliane (figg. 1, 3) sono riconoscibili anche nel paesaggio della Sepoltura di Cristo di Annibale Carracci delle lunette Aldobrandini (Galleria Doria Pamphilj, Roma). A confronto con un altro suo dipinto su tavola, il quadretto con il Domine, quo vadis? (fig.8), esportato a Londra nell’Ottocento, aveva circostanziato il recupero, anche emozionale, del sepolcro sotterraneo della chiesa di S. Sebastiano, che, nelle esplorazioni alla fine del Cinquecento, era stato creduto il primo sepolcro di S. Pietro e di S. Paolo.

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Fig. 2 - Annibale Carracci, Sepoltura di Cristo, particolare (Galleria Doria Pamphilj, Roma) (Foto A. Villani & Figli, Fototeca Zeri).

Nella lunetta (fig.1), a sinistra, sotto una rupe erbosa e tufacea, che designa il Gòlgota con le tre croci della Crocefissione di Cristo alla sommità, all’altezza, topograficamente, del declivio della collina appena fuori la Via Appia, vi sono cinque figure femminili (fig.2): al centro la Madonna, raffigurata anziana e non certo giovane come nella Pietà di Michelangelo, Maria di Cleofa con le braccia aperte, dietro di lei, la vecchia madre degli apostoli Simon Pietro e Andrea, e, a fianco di Maria Vergine, Maria Maddalena con le mani giunte. Perfino sei le Pie Donne in qualche Graduale, vi è una quinta Maria, Veronica, che è dipinta analogamente alla Pietà della National Gallery di Londra, in cui è Maddalena a sorreggere la Vergine: un quadro che dipingerà poco dopo.

Le Pie donne assistono al trasporto del corpo di Cristo, che si sta svolgendo sul lato opposto, sotto un’altra pittoresca rupe, somigliante alla Rupe Tarpea sulle pendici del Campidoglio, nella quale è l’ingresso del Sepolcro. La portata di realtà vi è spinta fino a scoprire le colline nel naturalismo del panorama quali terrapieni di accumulo che celano monumenti e fino a mostrare di quali rovine debba trattarsi nel soggetto sacro. Cristo e’ sorretto da Nicodemo, da Giuseppe d’Arimatea e, come è supponibile, dall’anziano Longino, il soldato romano convertito, che sarà testimone della Resurrezione e, sullo sfondo della porta sepolcrale, vi e’ dipinto San Giovanni con un cero in mano, la figura di spalle e meno distinguibile del dipinto (fig.4).

Questa lunetta, insieme all’altra con la Fuga in Egitto (fig.6), e’ probabilmente la prima ad essere eseguita di una serie di sei con Storie della Vergine, di cui quattro, tra le quali due di formato più piccolo, sono riconosciute di mano dei principali allievi di Annibale, ed in particolare di Francesco Albani, e discutibilmente datate non prima del 1603, anno in cui Girolamo Agucchi aveva compilato l’inventario del cardinale Pietro Aldobrandini, ma che non le registra, ed in cui il fratello di Annibale, Agostino Carracci, malato da tempo, era già morto. Analizzandone la storia documentale in rapporto all’iconografia non sarà irrilevante anticipare le due con il protagonismo del paesaggio al 1600, ancora prima che la tavoletta di Londra del Domine, quo vadis? (fig.8) fosse commissionata allo stesso Carracci dal cardinale Pietro Aldobrandini. Il rilievo dato alla figura di San Giovanni, che aveva testimoniato della Resurrezione di Gesù (Giovanni 20, 1-18), suggestiona che, archeologicamente parlando, il sepolcro dipinto all'inizio

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Fig. 3 - Annibale Carracci, Sepoltura di Cristo, particolare (Galleria Doria Pamphilj, Roma (Foto A. Villani & figli, Roma)

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Fig. 4 - Annibale Carracci, Sepoltura di Cristo, particolare (Galleria Doria Pamhilj,  Roma) (Foto A. Villani & figli, Roma)

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Fig. 5 - Porta Latina e Oratorio di S. Giovanni in Oleo (Foto De Alvariis)

della Via Appia coincida con il luogo in cui S. Pietro era andato incontro a S. Paolo, e sia poco distante dal Tempietto di S. Giovanni in Oleo (fig.5), che sarà riedificato da Francesco Borromini sulla Via Latina, sorto nel luogo del martirio dell’Evangelista. Il martirio del Santo ha nelle Patristica più di una tradizione letterale della sua dinamica, ma è permanentemente diffusa l’esegesi di essere stato arso qui nell’olio bollente, anche se non gli fu fatale.

Il paesaggio, analizzato nella sua estensione, fa vedere sullo sfondo la città di Gerusalemme, che nella realtà monumentale e’ il tratto antico delle Mura Aureliane, in cui si apre la merlata fronte innalzata da Onorio (401-03 d. C.) della Porta San Sebastiano davanti l’Arco di Druso, e, all’estremita’ destra, il dettaglio della Basilica di S. Giovanni e del Laterano, dietro i bastioni modularmente ripetuti della Porta Latina e della Porta di S. Giovanni (figg.1, 3). Il particolare dell’ingresso del Sepolcro corrisponde al dettaglio del mausoleo che ancora esiste sulla Via Appia, topograficamente distante dalle mura di Roma, e oggi ancora da restaurare, l’edificio detto delle Platonie, ricordato da più di una fonte storica. Il dettaglio avvalorava la memoria neotestamentaria: l’intento archeologico di Carracci circostanziava l’avvenimento nel paesaggio sulla Via Appia delineando le mura romane al tempo in cui vissero gli Apostoli. Gli elementi del paesaggio consistevano realmente sullo scorcio del Seicento.

L’altra lunetta dove è dipinta la Fuga in Egitto (fig.6), con la Sacra Famiglia che ha appena attraversato il fiume con un barcaiolo, ancora una volta, raffigurando una simbolica Gerusalemme nel paesaggio percorso da una coppia di cammelli, ritrae, elevati sull’ansa del Tevere, tre edifici emergenti nel centro di Roma, ben distinguibile e più arretrato il Pantheon, a destra il Tabularium sul Campidoglio e nel declivio alla sponda, che forma una cascata, la Cloaca Massima al Foro Boario nel Rione S. Angelo, dove per la Cappella Bombasi della chiesa di S. Caterina ai Funari Annibale Carracci aveva dipinto nel 1599 la tela di Santa Margherita. La chiesa, consacrata nel 1565, e annesso convento agostiniano delle donne pericolanti, sorge nei pressi del Palazzo Mattei e del Convento di S. Ambrogio alla Massima della Confraternita lombarda, restaurato sotto la cura del futuro cardinale Ludovico III De Torres e di sua sorella Beatrice De Torres, e poi ancora da Olimpia De Torres (1622), monache del convento femminile con le chiese di S. Maria della Massima e di S. Lorenzino dei Cavallucci alla Torretta, detta anche S. Lorenzo dei Mondezzari. L’opera caritatevole dove, Giulio Mancini riferirà, lui stesso conobbe Caravaggio che dormiva in un pagliericcio, si trova al Portico d’Ottavia poco distante dal Monte dei Cenci, dalla Torre dei Crescenzi e quasi di fronte alla Torre Caetani a S. Bartolomeo all’Isola. Maestranze lombarde furono quelle che intrapresero la cavatura dei preziosi marmi di risulta, il restauro, la conservazione, la musealizzazione ed il ripristino delle pavimentazioni a mosaico nelle costruzioni monumentali intraprese nei rioni S. Angelo e S. Eustachio, con i laterizi prodotti dalle fornaci romane e la tecnica delle opere murarie desunta soprattutto dai ruderi della Via Appia e del Foro Romano, comprese le infrastrutture fognarie della Cloaca Massima del Convento di S. Ambrogio dipinta sul Tevere nella Fuga in Egitto. Un’archeologia che non si asteneva dalla tentazione delle spoliazioni dei monumenti superstiti. Fino al 1593 il cardinale titolare di S. Nicola in Carcere nel Rione S. Angelo era stato Federico Borromeo e da quella data gli sarà succeduto il neoeletto cardinale Pietro Aldobrandini.

E’ piu’ che plausibile che l’ambientazione topografica delle lunette Aldobrandini di Annibale Carracci, che collocano gli episodi della storia cristiana sulle rovine romane, coincida con l’analogo ‘topos’ delle Rime di Giovan Battista Marino, edite nel 1602, di situare il racconto di favole e storie, anche bibliche ed evangeliche, in luoghi determinati della memoria dell’antico.

Le due lunette carraccesche dalla rinomata raccolta Aldobrandini della Fuga in Egitto e della Sepoltura di Cristo (figg.1, 2, 3, 4 e 6) ambientano i due episodi sacri nelle vedute del Pantheon e delle Mura di Roma nel tratto della Porta Latina e di Porta S. Sebastiano, l’antica Porta Capena, sulla Via Appia. Suggeriscono, cioé, dai due paesaggi che fanno da sfondo agli episodi salienti dalle Storie dell’Infanzia di Cristo, il paesaggio della Fuga in Egitto, e dalla sua Passione, la Deposizione nel sepolcro, che fossero state dipinte per il palazzo di Giovan Francesco Aldobrandini, padre di Margherita, situato al Pozzo delle Cornacchie al Pantheon (Guerrieri Borsoi 2007), a Piazza Rondanini, che inglobava il rudere di un’altra rilevante vestigia romana, l’esedra delle Terme Alessandrine.

Esaltavano entrambe, quindi, la rapida ascesa della casata del pontefice Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini, divenuta romana e principesca, raffigurando la prima il recente possesso acquisito al Pantheon e l’altra l’inclita veduta del Capitolo di S. Sebastiano, cui apparteneva la proprietà del limitrofo Casale di Torre Nuova appena sequestrato alla famiglia Cenci, a fare da sfondo alle Storie della Vergine raffigurate dall’intera sequenza delle sei lunette.

Una circostanza, quella di essere state dipinte per la cappella privata di Giovan Francesco Aldobrandini, che spiega perché le prime eseguite da Annibale Carracci non fossero state inventariate dalla nota dei quadri del cardinale Pietro Aldobrandini, stilata da Girolamo Agucchi nel 1603, ma fossero state integrate nel 1605 con due piu’ piccole da Francesco Albani per collocarle nella Cappella del Palazzo del cardinale Pietro a Via del Corso e, infine, adattate alla Villa Aldobrandini, la Villa Este a Monte Magnanapoli, che l’Aldobrandini aveva avuto nel 1600 dai Vitelli. Nella Villa Aldobrandini, difatti, oltre alla biografia di Annibale Carracci di Giovan Pietro Bellori, anche Carlo Cesare Malvasia avrà ricordato essere consistita la serie intera delle mezze lune, da lui chiamate “pezzi” nella Vita dei Carracci della Felsina Pittrice (Bologna 1678, T. I, p. 501): “Nella Villa Aldobrandini […] L’Apparitione di Christo a S. Pietro [n.d.r.: National Gallery, Londra (fig.8)], & altri pezzi fatti col suo disegno da’ discepoli, ch’erano nel Palagio al Corso.” Rendendo attendibile che, nella storia della collezione, le due piu’ piccole fossero state eseguite per adattarle tutte alla collocazione della Cappella di Palazzo Aldobrandini al Corso (Giovan Pietro Bellori, Le Vite, Vita di Annibale Carracci, Roma 1672, ed. a cura di Evelina Borea, Torino 1976, 2009 2a, I, p.95), secondo i documenti con pagamenti all’Albani del 1605 e del 1613 pubblicati da Howard Hibbard (1964), comprese le quattro di Albani,

 

FIG. 6

Fig. 6 - Annibale Carracci, Fuga in Egitto (Galleria Doria Pamphilj, Roma)

realizzate in parte dopo la malattia e la morte di Annibale. I sei mezzi ovati pervennero, infine, per successione ereditaria alla Galleria di Olimpia Aldobrandini Pamphilj, dove tuttora sono situate da oltre la metà del Seicento, quando furono collocate nella Sala Aldobrandini della collezione. Nell’inventario della Villa Pamphilj del 1666 sarà stata, infatti, registrata la tela (cm.1,20x2,25) incorniciata: ‘Un quadro vi è dipinto un paese d’Annibal Caracci, vi è un fiume con una Barchetta et alcune figure alto palmi [2], longo palmi [3]. Cornice nera profilata d’oro d’Anibal Caracci’ (Jörg Garms, 1972), le cui misure senza errori di trascrizione dovrebbero essere, in concordanza alle dimensioni effettive, però, di palmi 5 e 9 (fg.6) ed in cui era sfuggente al compilatore perfino il soggetto della Fuga in Egitto. L’importante ornamento della cornice, certamente invasiva della luce della tela, non vi è misurato e le dimensioni che sono riportate coincidono con quelle delle due lunette di Francesco Albani di formato più piccolo con i soggetti dell’Epifania e della Visitazione.  Annotazioni sommarie, quindi, prive dell’identificazione del soggetto e che a malapena le designano aver occupato gli spazi dei sott’archi della volta a botte di più di una cappella privata Aldobrandini. Nelle prime due mezze lune, in cui è dominante il paesaggio, Annibale appare quanto mai lontano dalle stilizzate quadrature a grottesche ad affresco attribuite a Prospero Fontana, ma probabilmente dovute a Prospero Orsi (fig.7), del palazzo appartenuto al cardinale Tiberio Crispo sul Lago di Bolsena (Palazzo Del Drago), dove pure avrebbero soggiornato gli Aldobrandini.

FIG. 7

 Fig. 7 - Prospero Orsi, Storia di Alessandro Magno, affresco (Palazzo Del Drago, Bolsena)

Nelle due tele di Carracci il paesaggio e’ tutt’altro che fantastico: e’ precisamente anacronistico. Se nella storiografia del barocco - primo fra tutti André Felibien negli Entretiens - per prospettiva s’intenderà precipuamente uno scorcio panoramico e’ dovuto a questi due originalissimi dipinti, che commemorano squarci sincretici della storia cristiana nelle vedute di Roma. Nella Fuga in Egitto (fg.6) scorre il fiume Tevere con le sue anse e nell’orografia sullo sfondo, come nella Sepoltura (fg.1), si affacciano il Monte Mario ed il Soratte, eremo di papa Silvestro I, e le scene sacre vi appaiono come fossero minuziosamente sbalzate sulle facce di una moneta romana, al modo degli ‘exempla’.

FIG.8

Fig. 8 - Annibale Carracci, Domine quo vadis?, olio su tavola (National Gallery, Londra)

Il soggetto è significativo per la storia collezionistica e la datazione dei dipinti, ma perché Carracci, secondo la tradizione cristiana, colloca in questo luogo sacro, tra le catacombe di S. Callisto e la chiesa di S. Sebastiano, una delle sette chiese di Roma della Pianta di Antoine Lafréri del 1575 (BAV), che e’ nascosta dalla rupe nella prospettiva del quadro, la scena della Sepoltura di Cristo? Sono gli Acta Petri, un testo apocrifo in greco del Nuovo Testamento del II secolo d. C. di un discepolo di Giovanni, Leucio Carino, che parlano della predicazione e del martirio di Pietro, a testimoniare la visione di Cristo, apparsogli dove sorge la chiesa del Domine, quo vadis? sulla biforcazione tra la Via Appia e la Via Ardeatina, e riportano il breve dialogo svoltosi tra loro nel luogo: “- Domine, quo vadis? - Venio Romam iterum crucifigi. - ” (trad. it.: “ - Vengo a Roma per essere crocefisso una seconda volta. -”).

La predizione che farebbe trasalire San Pietro, in quanto presago del fatto che poco dopo subirà a sua volta il martirio, l’episodio tragicamente umano della sua biografia, che nel testo si avverte, cede il posto in questa lunetta (fig.1) alla ‘Commemoratio mortis’ di Cristo, la visione del mistero eucaristico. Il luogo dell’incontro con Cristo dove sorge la chiesa di S. Maria in Palmis, o delle Piante, dedicata al titolo di ‘Domine, quo vadis?’, è vicino all’odierno ingresso alle estesissime catacombe del cimitero romano e cristiano, cui in realtà, nei primi anni del Seicento, si accedeva sempre dalla chiesa di S. Sebastiano, anche a dire di Giovanni Baglione ne Le Nove chiese di Roma edito nel 1639: le Catacombe di S. Sebastiano sulla Via Appia.

La notizia che Annibale avrà dipinto per il cardinale Pietro Aldobrandini un’altra tavola proprio con questo soggetto, alla National Gallery di Londra (fig.8), è nell’Avviso di Roma del 2 giugno 1601 (Biblioteca Casanatense, Roma, Ms. 983), secondo il quale il piccolo quadro (cm. 77X56), in cui Carracci mostra di seguire la narrazione della Passio di Pietro della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine o Varazze (XIII° secolo), con il Santo che arretra sgomento, era appena stato eseguito.

Giulio Mancini ricordava quest’altro soggetto carraccesco come “un quadro per Aldobrandino, Domine quo Vadis” e anche Giovan Pietro Bellori nella Vita di Annibale, come Malvasia, avrà situato insieme alla serie

FIG 9

Fig. 9 - Chiesa di S. Urbano alla Caffarella, acquaforte dalle Vedute di Roma di Giovan Battista Piranesi (Palazzo del Quirinale, Roma

FIG. 10

Fig. 10 - Chiesa di S. Urbano alla Caffarella, interno, incisione

di lunette questo "quadretto picciolo dell’Apparizione del Signore a S. Pietro” nella Villa Aldobrandini a Monte Magnanapoli, proveniente a sua volta dal Palazzo del cardinale Pietro Aldobrandini al Corso. Ma era solo questa tavola (fig.8) ad essere inventariata dall’Agucchi nel 1603 in casa del cardinale Pietro: “Un Christo e San Pietro, quando li disse Domine quo vadis?, in quadro con cornice dorata, d’Annibale Caraccioli [n.d.r.· Carracci] bolognese.”  Il cardinale Pietro Aldobrandini era in possesso del quadretto nel 1603 e le due lunette di Annibale (figg.1-6) ornavano ancora la cappella del palazzo di Olimpia e Margherita Aldobrandini Farnese.

In questa tavola il paesaggio è archeologicamente rilevante e gli edifici vi appaiono raggruppati come altrettante Mirabilia a fare da quinte all’episodio agiografico degli Acta Petri: a sinistra, un’architettura circolare ha un’evidenza che ricorda la Tomba di Cecilia Metella, priva di copertura cuspidata e diroccata la merlatura, con il profondo arco di accesso nella muratura, particolare che conforta la proposizione eloquente del panorama della Via Appia come nella lunetta della Sepoltura di Cristo (figg.1, 3), ma in cui i ruderi abbiano stavolta, tutti alla ribalta, la prospettiva coeva all’episodio rappresentato.

Sulla destra vi e’ un rettifilo di quattro colonne corinzie dal fusto liscio, davanti ad un tempio risagomato sul modello del Tempio di Portuno al Foro Boario. Sembra una citazione raffaellesca dall’Incendio di Borgo delle Stanze Vaticane, da Raffaello ambientato sullo sfondo della Loggia di S. Pietro fino ad includere il Tempio di Saturno nel teatro delle rovine monumentali del Foro Romano, con il rimando alla storia delle origini di Roma e alla fuga da Troia di Enea. Come Raffaello, Carracci ha a sua volta eseguito un rilievo di scavo, dal quale dedurre che le colonne corinzie lisce, che dipinge nella tavoletta, si trovassero a terra di fronte alla Tomba di Cecilia Metella alla data del 1600, all’altro limite del Circo di Massenzio, nei pressi della chiesa di S. Urbano alla Caffarella (fig.9 e 10), situata nel complesso di Erode Attico.

Nessuna ipotesi può sembrare risolutiva: nemmeno che le colonne appartenessero al Mausoleo di Gallieno, troppo distante, invece che al Circo, il complesso oggi spesso detto Villa di Massenzio, in cui localizzare, secondo Plinio, il Tempio del dio Redicolo. La posizione topografica delle colonne di un tempio con fronte a timpano, infatti, è avanzata nel quadretto rispetto alla chiesa di S. Urbano alla Caffarella (fig.9), che figura alle sue spalle.

Dedicata ad Urbano, pontefice successo a Callisto nel 222 d. C., venne consacrata sul tetrastilo Tempio di Bacco e Cerere (ovvero delle Camene sopra il Fonte Egeria in un’acquaforte di Giuseppe Vasi) o Tempio di Cerere e Faustina, ad ordine corinzio scanalato in marmo pentelico. Il tempio originario, datato 164 d. C., ma dall'ultimo restauro (2010) avanzato ad una datazione in età tetrarchica, appare oggi con il rialzo della facciata sotto il timpano, un barbacane colmato dal consolidamento contraffortato - un cedimento è visibile dallo squarcio nella zona di facciata dell’incisione - che sarà realizzato nel restauro del 1634 da Francesco Barberini per volontà di Urbano VIII, il pontefice Maffeo Barberini. Era stilisticamente corretto nella tavola di Carracci, con il timpano liscio ribassato e le mensole che sono ancora in loco invece della dentellatura incisa da Piranesi, e situata nella posizione topografica, che in un’altra incisione settecentesca ancora delle innumerevoli conservate sarà detta ‘fuori Porta S. Sebastiano due miglia’. L’acquaforte (ultimata a bulino) prescelta (fig.9) appartiene alle ‘tirate postume’ romane di Giovan Battista Piranesi delle serie delle Vedute di Roma, la cui prima tiratura, con una complessa didascalia, è databile al 1767 e proviene dalle raccolte del Palazzo del Quirinale. I dipinti di Carracci sono mossi da un intento prettamente ricostruttivo del sito archeologico dell’Appia che includeva S. Urbano sia dal punto di vista paesistico che da quello architettonico. In lontananza il gradiente di Cecilia Metella e l’alzata del Mausoleo rotondo del Romuleo (fig.8 e 20) circondato da colonne e in rovina. Neppure dovrebbe sorprendere, se solo si pensi che la chiesa di S. Urbano alla Caffarella ha all’interno, com’è visibile da un’altra incisione piranesiana (fig. 9), un ciclo di affreschi con Storie dei Vangeli e Storie di S. Urbano e dei martiri Cecilia, Valeriano e Tiburzio.

La sua iconografia è tuttora problematica, ma la loro disposizione nel sacello addirittura anticipa, sebbene priva di storie veterotestamentarie, la distribuzione a fasce con diciotto riquadri, variamente risuddivisi, nel programma iconologico della Cappella Sistina del pontefice Sisto IV, al quale è stato paragonato. Soprattutto, in virtù del fatto che Roma conservi rari esempi in altri complessi di affreschi cittadini che possano farsi risalire ai primi anni dell’XI secolo e costituire un testo di lettura figurativo narrativamente così esteso dei passi salienti dei Vangeli e perciò assimilabili alla Cappella Magna di S. Pietro, decorata nel 1369 da Giottino e Giovanni da Milano, sulla quale fu elevata la Sistina. Forse il donatore e non l’esecutore ne e’ il frate Bonizzo che si legge nell’iscrizione datata sotto la Crocefissione della controfacciata (fig.13) e gli affreschi presentano un’iconografia con Storie della Vita di Cristo, tra le quali i soggetti commissionati ad Annibale Carracci nelle lunette privilegieranno il protagonismo della Vergine. A S. Urbano, oltre al Cristo in trono e alla Crocefissione sulle pareti corte, vi sono su quelle lunghe, tra le altre Storie di Cristo, la Natività e scene dell’Infanzia di Cristo, compresa la Fuga in Egitto, ma senza la figura dell’asino che dipinge Carracci, i riquadri della Passione e, tra gli altri, delle Pie Donne al Sepolcro, della Sepoltura, del Noli me tangere e della Discesa al Limbo (fig.11).

FIG 11

Fig. 11 - Anonimo, Storie della Vita di Cristo, affresco (Chiesa di S. Urbano alla Caffarella, Roma)

 fig 12

 Fig. 12 - Crocefissione. Lo stato precedente il restauro seicentesco del Ms 4402 (BAV), acquarello

fig 13

 Fig. 13 - Crocefissione (Intero e particolare). Lo stato successivo l’intervento conservativo del 2 quarto del Sec. XVII del Ms.4408 (BAV), acquarello

FIG.8 fig 14

 Fig. 14 - Annibale Carracci, Eros e Anteros, Spicchio della volta della Galleria Farnese, affresco (Palazzo Farnese, Roma); a sinistra: Idem, Domine quo vadis?, olio su tavola (National Gallery, Londra)

Il complesso rappresenta un oratorio preromanico della città e una, forse una delle prime, ‘Biblia pauperum’ che si riteneva scoperta da Sebastiano Biliardo, sepolto qui nel 1657. Alcuni degli episodi rappresentati da Carracci immersi nel paesaggio, iconograficamente gli stessi, ne sono un’evidente citazione primitiveggiante, nel ripristino dei colori della preparazione rossastra dominante (fig.11), che era la risultante a vista prima del rifacimento barberiniano, oggi marcata nelle vesti e nelle croci, acclarandone la fortuna nel primo Seicento. Il corpo di Cristo e’ avvolto nel sudario tanto nell’affresco della Sepoltura di Cristo di S. Urbano, nel secondo riquadro (fig. 11), che nella lunetta di Carracci (fig.4), lasciandone quest’ultimo coperto soltanto il bacino. Antonio Eclissi esegui’ la copia ad acquarello dell’affresco della Crocefissione di S. Urbano nel Codice Barb. lat. 4402 (BAV) (fig.12), in cui si legge la dicitura: ‘Supra portam Sancti Urbani interius’, a ridosso del restauro compiuto probabilmente tra il 1634 e il 1637, poiché altri acquarelli di Marco Tullio Montagna e Simone Lagi ne documentano lo stato di totale ridipintura in un altro Codice Barb. Lat., il 4408 (BAV) (fig.13). Dovremmo andare a S. Pietro per ritrovare, ad opera di Michelangelo, nel cassettonato delle volte dei transetti della crociera e della cupola (fig.16), uno studio dei lacunari a stucco della volta a botte di S. Urbano (figg.15 a, b) e finiremmo ad ammirare la borrominiana S. Carlo alle Quattro Fontane per lo spessore e la profondità primitiva restituita dai lacunari ettagonali  

 

15 A

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Fig. 15 a, b - Interno di S. Urbano alla Caffarella, Roma

della sua cupola a pianta ovale alla volta del santuario, che nella Tomba di Alessandro VII (fig. 17) a S. Pietro di Gian Lorenzo Bernini sarà un ricercato effetto luministico di dorature, per non dubitare di trovarci, qui a Capo di Bove, nelle vicinanze del luogo in cui S. Pietro interrogò Cristo. I lacunari della cupola delle Terme di Diocleziano inglobata nel 1598 dalla Chiesa di S. Bernardo alle Terme e quelli della Basilica di Massenzio al Foro Romano sono anche, com’è noto, ottagonali altrettanto.

Del fatto che S. Pietro lo stesse interrogando è prova nella tavola (figg.8 e 14) l’austerità fortemente caratterizzata del volto del Santo, nella fisionomia rappresentata da Carracci più che fedele alla sua immagine nel Breviario Romano, ma nel fervore eroico del suo temperamento, facile all’ira, più consono al passo della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine: “...volle sapere el traditore del Signore

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 Fig. 16 - Cupola e volte della crociera (Basilica di S. Pietro), crediti: Franco Cosimo Panini Editore

fig 17

Fig. 17 - Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Alessandro VII (Basilica di S. Pietro)

impero secondo che dice augustino se egli saputo lo avesse lo harebbe dilaniato con li denti.” Pietro riconobbe Gesù anche a Cesarea di Filippi, ai piedi del Monte Hermon, sulle alture del Golan, quando Cristo pronunciò: “Voi che dite che io sia?”, dai Vangeli di Marco e di Luca, e lui gli rispose: “Tu sei il Cristo di Dio.” Misurando il tempo trascorso tra il principio della sua missione e il suo martirio, Pietro e’ a Roma ancora testimone della sua gloria. Carracci lo ritrae stupefatto, gli occhi dilatati e le mani avanti, apprensivo verso l’annuncio della sua sorte imminente: non è soltanto umanamente fragile, è scosso, laddove tutta la sua corporatura vacilla nei “contrari affetti”, così definiti da Pomponio Torelli nella tragedia La Galatea, dinamica del contrasto tra Eros e Anteros della Galleria Farnese (fig.14), nel 1600 appena scoperta, nel cedere il passo alla figura erculea ed edificante di Cristo. Il sentimento di averlo rinnegato è nello scarto della sua figura che inciampa, frenando lo slancio in bilico, simile a quello di Anteros intento a fare una cianchetta ad Eros sull’orlo del precipizio della volta Farnese: è, potremmo dire, uno stato d’animo, psicologicamente parlando, di reazione familiare scandalizzata alla vista di una persona cara che non abbiamo più incontrato, e che è sempre con noi. Il significato che lo sorregge è che Cristo è la salvazione del Vangelo secondo Luca (9: 23): “Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam cotidie et sequatur me”, ma anche del Vangelo secondo Matteo (16: 24): “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, afferri la sua croce e mi segua”, che precede la Passione di Cristo. La muta risposta di S. Pietro nel breve dialogo sarebbe, se pronunciata nel dialetto romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli: “ ...Ma, ar fatto è un’antra sorte de latino.” Storicamente Pietro sta fuggendo da Roma, per scampare alla persecuzione di Nerone e, in particolare, alla congiura di Erode Agrippa, amicissimo di Druso, 

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Fig. 18 - Innocenzo Tacconi, Volta della Cappella Cerasi o dell’Assunta (S. Maria del Popolo, Roma)

figlio di Tiberio, volgendo sulla Via Appia: Cristo stesso, riapparso a San Pietro, rappresenta la via. Non sarà irrilevante ritornare alle quattro colonne corinzie lisce in questa tavola di Annibale Carracci alla National Gallery di Londra (Fig.8 e 14), poste davanti alla chiesa di S. Urbano alla Caffarella. Sfogliando lo Antiquae Urbis Splendor di Giacomo Lauro, inciso tra il 1612 e il 1630, raccolto da Giovanni Alto nell’edizione di Vitale Mascardi del 1632, alla tavola 50 (fig.19), incisa da Pietro Santi Bartoli, si trova l’illustrazione del ‘Templum Domitiani sive Aug.[usti] sub Herculis vultu’, il luogo creduto nel testo l’altezza dell’ottavo miglio, sul lato sinistro della Via Appia allontanandosi da Roma, ma dove Carracci dipinge l’ordine gigante nella tavola di Londra, oltre S. Urbano alla Caffarella al terzo miglio, e la chiesa attuale del ‘Quo Vadis’, S. Maria in Palmis.

 

 tempietto 11

  Fig. 19 - Pietro Santi Bartoli, Tempio di Domiziano nell’aspetto di Ercole, tratto da Antiquae Urbis Splendor, Roma 1632, tavola 50

La congettura anastilotica di un’ampia fronte porticata del tempio rotondo di Domiziano, l’imperatore al quale era dovuta la presa di Gerusalemme e del Sepolcro di Cristo, era detta essere nella didascalia opera di Raffaele Fabretti, sovrintendente agli scavi dell’Appia Antica e la datazione vi era desunta dal bollo laterizio di Domiziano ritrovato sulle rovine, riprodotto nell’incisione in basso a sinistra. Anche Carracci quindi aveva commemorato una vestigia romana nella tradizione rinascimentale dell’esempio di virtù dell’Ercole eroico, inframmezzandola nello sfondo della raffigurazione del testo apocrifo di Pietro. Che fosse di reinvenzione del cosiddetto Romuleo (fig.20) a pianta centrale nell’area del Circo di Massenzio, dov’erano ammassati molti reperti, se questo il Tempio del Dio Redicolo descritto da Plinio, dotato anche di

 

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 Fig. 20 - Romuleo nella Villa di Massenzio sulla Via Appia Antica (Google maps)

un eròo a cariatidi e di un recinto, e’ possibile ricavarlo da un’altro disegno del 1573 di Francisco de Hollanda, contenuto nella Cronaca del Mondo, il De Aetatibus Mundi Imagines (Codex BNM, Fol.67) e intitolato ‘La Vittoria della Chiesa dal tempo di Costantino ai nostri giorni’, in cui compare, dietro le immagini dell’imperatore Costantino con la Croce e S. Elena, analogamente un tempio a pianta centrale, contraddistinto da una cella cilindrica e colonnato, che, sormontato com’è da un’edicola, non è identificabile con il Pantheon, ma con il Mausoleo di Sant’Elena, al quale Fabretti assimilava il suo rilievo di un tempio che specificava riemerso invece sulla via Appia. L’esistenza di un tempio rotondo con fronte colonnata in questa vastissima area, oltre che dai resti monumentali e da reperti degli scavi intrapresi più volte, in contraddizione con Antonio Nibby, che ne rivendicò la scoperta, era sostenuta dalle fonti fino ad Andrea Fulvio, che ne Le Antichità di Roma del 1588 aveva parlato di un Tempio di Marte “extramuraneo” nella prima Regione di Porta Capena: Marte Gradivo, Redicolo aveva detto Plinio, tale da accogliere gli eserciti romani sulla via dei trionfi e sbaragliare invece le cavalcature di Annibale. La testimonianza di Fabretti dà una dimensione cronologica del periodo in cui le collinette erbose della Sepoltura di Cristo di Carracci fossero state scavate, giungendo a restituire al tempio, avanzato da un pronao, la forma rotonda, ma non ancora i rapporti topografici di distanza sulla Via Appia, essendone state rimosse le lapidi migliarie e incerto l’andamento basaltico della pavimentazione. Perciò è ancora nebuloso che la sua volta ribassata, come si presenta oggi visitandolo, potesse sostenere il colosso bronzeo realizzato nella fucina del sepolcreto di Cecilia Metella e fuso per fabbricare le porte del Laterano, la cui testa ed altre parti risparmiate dalla fonditura si conservano nei Musei Capitolini. Il colosso, oggi identificato con Costantino, che svettava il paesaggio della Via Appia era reimmaginato visibile dal mare, dai monti, dalla palude Pontina e dai Colli Albani, termine di ogni sortita.

Ancora in un altro dipinto romano erano celebrate le memorie della storia cittadina sulla Via Appia: la veduta delle alture del Gianicolo, del Monte S. Spirito e del Monte Mario inquadravano il Ponte Emilio in pietra e il Mausoleo rotondo lungo il corso del Tevere e la Porta Capena, di cui avevano favoleggiato le Antiquitates di Dionigi di Alicarnasso, anche nella prospettiva di Jacopo Ripanda dell’Appartamento dei Conservatori (Musei Capitolini, Roma) (fg.21) dell’omonimo Palazzo in Campidoglio. Sulle quattro pareti della Sala di Annibale un altro pittore bolognese, di nascita e non d’adozione, aveva affrescato le scene della Guerra Punica narrata da Polibio e da Tito Livio. Carlo Cesare Malvasia nella Felsina pittrice (Bologna 1678) riferirà a Ripanda due affreschi rimasti dell’Appartamento rinascimentale sulla falsariga delle gesta di grandi condottieri romani, uno dei quali nella Sala dei Capitani, l’affresco della Giustizia di Lucio Giunio Bruto, (Felsina Pittrice, I, p.34): “...e nel Palagio stesso de’ Signori Conservatori in Campidoglio il Trionfo di un Re di Persia, 

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 Fig. 21 - Jacopo Ripanda, Annibale a Roma, affresco (Musei Capitolini)

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Fig. 22 - Vittore Carpaccio, Incontro di S. Orsola con Papa Ciriaco a Roma (Gallerie dell’Accademia, Venezia)

forse di Ciro [n.d.r.: probabilmente identificabile con lo stesso Annibale], e la intrepidezza di Bruto in veder tagliar la testa a’ figlioli, restate solo in piedi di tante che vi fece;...” Nell’appartamento dei Conservatori Ripanda aveva affrescato i più importanti monumenti romani: la Porta Capena, il Colosseo nell’affresco della Pace nel Foro di Lutazio Catulo della stessa sala, l’Arco di Tito nella Giustizia di Bruto, mentre il Pantheon e perfino lo stesso Palazzo dei Conservatori di Roma e molti altri edifici saranno stati raffigurati nel fregio del Trionfo di Lucio Emilio Paolo sul re macedone Perseo, attribuito a Michele Alberti, un allievo di Daniele da Volterra, in un’altra saletta. Ma è per la prospettiva dell’Arco di Tito, nel primo decennio del Cinquecento in parte interrato, che Malvasia, a sua volta anche archeologo, restituiva a Ripanda la Giustizia di Bruto nella Sala a fianco, che fu ridipinta interamente da Tommaso Laureti nel pontificato di Clemente VIII, come sostenuto da Giulio Mancini, Gaspare Celio e Giovanni Baglione: Laureti era un allievo di Sebastiano del Piombo. Nel primo decennio del Cinquecento il recupero umanistico dell’affresco di Ripanda con Annibale a cavallo dell’elefante superstite alle porte della città aveva rappresentato, su commissione di Matteo Antici Mattei, il cui stemma è alla base del dipinto (‘Mattheus Marchio Antici Mattei Senator Urbis’ l’iscrizione nel cartiglio dell’ascendente di Ciriaco), lo scompiglio della cavalleria cartaginese dell’episodio della Seconda Guerra Punica avvenuto al tempio della Via Appia, descritto da Festo Rufo e da Marco Terenzio Varrone, ma anche dalla Naturalis Historia pliniana. La sua scena dell’assedio particolareggiata su larga scala avra’ ispirato tanto le incisioni di Agostino Carracci per la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso del 1590, quanto le spaziate miniature delle lunette di Annibale che narravano la Gerusalemme dei Vangeli dalle Storie cristologiche di S. Urbano, ma soprattutto il recupero archeologico della tavoletta di Londra dipinta per il cardinale Pietro Aldobrandini.

Ed è un dipinto di Vittore Carpaccio del 1492 delle Storie di S. Orsola, già nella Scuola di S. Orsola a Venezia, una tempera su telero che rappresenta l’Incontro dei pellegrini di Sant’Orsola con Papa Ciriaco fuori dalle Mura romane (Gallerie dell’Accademia, Venezia) (fig.22), a darci un’idea, sia pure vaga da parte di un pittore che non era mai stato a Roma, della fortificazione cilindrica di Castel S. Angelo sviluppata con due torri sovrapposte come la Torre di Filarete a Milano e della mole delle mura nella scala di grandezze di Ripanda, ma nel tratto della Cittadella Vaticana, rispetto al rudere fondato da Domiziano e poi da Massenzio sulla via Appia: le loro mura un modello della pratica prospettica dei monumenti romani nel Rinascimento. Ma se si volesse trovare un precedente di Carracci nella pittura veneta diremmo che è la Tempesta di Giorgione a commuovere le lunette Aldobrandini, trascinando il paesaggio del Po sullo scorcio di Venezia dell’episodio mitologico della nascita di Enea da Venere e Anchise in un avvenimento della storia cristiana. Nella Tempesta di Giorgione il 'Genus unde Latinum' virgiliano che i fratelli Carracci avranno dipinto nel riquadro di Venere e Anchise della volta della Galleria Farnese.

Il metodo classico usato da Carracci nella tavoletta (fg.14) sarà stato a sua volta di avvalersi di incisioni preliminari nel rilievo monumentale del dipinto, rispetto al quale la figura di Cristo, alla lettera del racconto petriano, marciando, lasciava alle sue spalle l’area monumentale. E’ probabile che il pittore per dipingere la lunetta Aldobrandini fosse salito sugli spalti accessibili del torrione di S. Sebastiano creando dall’alto la sua suggestione ‘en plein air’. Ma in realtà, il Cristo nella tavoletta di Londra se ne allontana, ingiungendo a Pietro di seguirlo e di compiere il suo ultimo atto di fede, lasciando la vita terrena: lui stesso è la via. Di nuovo il procedimento di Carracci è anacronistico e nella prospezione archeologica del paesaggio della Via Appia fa riaffiorare i monumenti interrati delle ‘Antiquitates’ come aveva fatto Giorgio Vasari nella Villa Giulia, nella Sala dei Sette Colli.

Difatti, è un terzo dipinto d’invenzione carraccesca che consente di localizzare con decisione l’avvenimento dell’agiografia di Pietro e della storia del Cristianesimo sulla Via Appia Antica, questa volta concepito per una cappella sempre privata, ma aperta al pubblico nell’anno giubilare del 1600, e, ancora a dire di Giovanni Baglione ne Le Vite del 1642, un affresco eseguito da Innocenzo Tacconi, un allievo di Annibale, della volta della Cappella Cerasi di S. Maria del Popolo (fig.18). Si tratta di una cappella della chiesa agostiniana della Nazione Lombarda dipinta prima della beatificazione nel 1603 e della canonizzazione nel 1610 di S. Carlo Borromeo. Nella cappella gli stucchi furono eseguiti da Carlo Maderno, quando la chiesa di S. Nicola De Tofo al Corso, dedicata da Sisto IV alla Nazione Lombarda, secondo Christian Hülsen nel 1927, e che era denominata S. Ambrogio al Corso nei documenti dell’arresto per porto d’armi di Caravaggio del 28 maggio 1605 (ASR, TCS, Reg. 1277, cc.197 sgg.), era fatiscente e non era stata edificata da Onorio Longhi al suo posto la Chiesa di S. Ambrogio e Carlo al Corso.

Anche Annibale Carracci e il suo allievo Innocenzo Tacconi lavoravano in quegli anni nell’ambito e con la committenza piu’ avanzata nello spirito riformatore della Confraternita lombarda. Nel riquadro sinistro della volta della cappella di S. Maria del Popolo, Tacconi su disegno di Carracci ha raffigurato a sua volta Cristo che appare a San Pietro alle porte di Roma (figg.18, 23), cioé lo stesso episodio del ‘Domine, quo vadis?’ della tavoletta di Carracci alla National Gallery. Nel riquadro di fronte (fig.18), oltre l’ovato con l’Incoronazione della Vergine, vi è il riquadro con Cristo che appare a S. Paolo  “...il Ratto di S. Paolo, fino al terzo Cielo” nella descrizione della volta delle Notizie di Filippo Baldinucci (Dal 1580 al 1610, Firenze, 1702, p.84). Nella stessa volta, cioé, Tacconi rappresenta anche la missione di S. Paolo, che si concluderà con la sua venuta a Roma ed il suo incontro con S. Pietro, un altro episodio narrato dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.

Tutti conoscono la cappella di Tiberio Cerasi, Tesoriere della Camera Apostolica, morto nel 1601, finita appena prima del suo antistante deposito funebre, che ne reca la data, dai due più grandi artisti del secolo: Caravaggio e Annibale Carracci, quest’ultimo con l’Assunzione di Maria Vergine sull’altare della cappella, che solo nel 1606 sarà dedicata a S. Maria Assunta.

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Fig. 23 - Innocenzo Tacconi, Domine, quo vadis? (Cappella dell’Assunta, S. Maria del Popolo, Roma)

La chiesa di S. Maria del Popolo, non un titolo basilicale al tempo, che aveva ospitato Martin Lutero, godeva degli stessi privilegi di S. Sebastiano per essere edificata sulla Tomba dei Domizi ed esservi qui conservata la Madonna che si voleva dipinta da San Luca. In questo luogo, secondo quanto narrerà nel 1654 Giovan Domenico Franzini nella Roma Antica e Moderna, si ritenevano sepolte le ceneri di Nerone, persecutore dei Cristiani. La Porta di Roma del dipinto di Tacconi (fg.23) è la Porta di S. Sebastiano dettagliata con i due torrioni, senza spogliarvi la fronte interna davanti l’Arco di Druso, come avrà fatto Carracci nella lunetta Aldobrandini con la Sepoltura di Cristo (figg.1, 3).

Ancora una volta alle spalle della Porta è delineato uno scorcio degli edifici del Pantheon, della Torre delle Milizie, del Settizonio, il cui abbattimento era stato intrapreso da Domenico Fontana sotto Sisto V nel 1589, del Bastione della Porta Asinaria a S. Giovanni, che vi ha rilevanza distaccata dal perimetro delle mura, e del Mausoleo di S. Elena. Sul lato sinistro, più difficili da riconoscere, i turriti contrafforti delle Terme 

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 Fig. 24 - Scavi di Paul Styger nella navata di S. Sebastiano nel 1915

 

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 Fig. 25 - Provocazione della Triclia negli scavi di S. Sebastiano del 1915

di Caracalla, ritenuta dalle fonti a quel tempo la Piscina probatica dei legionari. Anche qui e’ chiaro un intento anastilotico di recupero dell’Antico nella storia cristiana. L’approssimazione nella prospezione topografica dei monumenti più ragguardevoli restituisce i ruderi nel complesso cittadino visibili alle spalle del luogo di culto nel 1600. Anche questo paesaggio, all’origine di quello neoclassico e romantico come le lunette Aldobrandini mostra lo scenario dell’immagine della città, che in pochi anni si riverserà nell’idea di Roma della letteratura barocca: la Via Appia. Né è possibile dimenticare che sotto questa volta vi sono i due laterali su tela della Conversione di S. Paolo e della Crocefissione di S. Pietro di Caravaggio. Nei tre dipinti carracceschi visti la prospettiva è sempre la stessa assemblata da differenti angolazioni e solo la tavoletta di Londra profila un’alzata in miniatura del monumento scoperto nella montagnola nei pressi di S. Sebastiano, il cui scavo doveva essere stato intrapreso a quella data.

Tutta questa cappella flagrantemente storica del protobarocco è per dirci che Pietro ebbe la visione di Cristo poco prima d’incontrare San Paolo e che l'avvenimento sacro ebbe luogo a Roma ‘ad catacumbas’, sulla Via Appia Antica.

 

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 Fig. 26 - Chiesa di S. Sebastiano e Platonie, incisione in controparte, da: Descrittione di Roma antica e moderna, Giovan Domenico Franzini, 1643, p. 27

Proprio nel luogo dedicato alla ‘Memoria degli Apostoli’, dove i due Santi vennero onorati, sottostante la Basilica Costantiniana che fu intitolata a S. Sebastiano, prima e dopo la traslazione di metà delle loro reliquie nella Basilica Costantiniana di S. Pietro, e dell’altra metà nella Basilica di S. Paolo, come ha narrato sempre Giovanni Baglione ne Le Nove chiese di Roma edite nel 1639. ‘Domus Petri’ era la Basilica di San Sebastiano secondo l’iscrizione di Papa Damaso (IV° secolo), elevata sulla prima circiforme, con l’ambulacro, ora solo retrostante, e che al principio del Seicento era quasi interamente crollata. L’archeologo polacco Paul Styger nel 1915 vi scavò le vestigia della Triclia del Mausoleo di Quirino vescovo di Scisia del IV° sec. d. C., senza poterne dare altra interpretazione che quella del luogo di culto transitorio dei Santi Pietro e Paolo, durante la persecuzione di Valeriano nel 257 d. C., sorto nella necropoli romana e loro dedicato quali fondatori della comunità cristiana, rimasto almeno fino al V° sec. d. C. cimitero cristiano. All’esterno, sul lato destro davanti la facciata, si eleva il sepolcro cilindrico detto Platonie (figg. 26, 27), a fianco del quale il cardinale Scipione Borghese aveva riedificato nel 1612 la grandiosa navata della basilica paleocristiana, ripristinandone l’accesso di età costantiniana alla Memoria degli Apostoli e al complesso catacombale. Al posto del campanile che si vede nell’incisione in controparte (fig.26) nella Descrittione di Roma antica e moderna, edita da Giovan Domenico Franzini nel 1643, fu edificata nel 1713 la cappella Albani da Carlo Fontana e Filippo Barigioni, l’ultima cappella sul lato destro della navata.

Baglione, nella ‘Dichiaratione’ della Chiesa di S. Sebastiano Fuori di Roma (Le Nove chiese di Roma cit., p.85): “In questo cimitero furono riposti i corpi delli gloriosi Apostoli Pietro, e Paolo, e dicono vi stessero da dugento cinquanta anni in circa in un pozzo risecco nascosti; dove anc’hoggi si vedono le memorie in luogo sotterraneo, e quivi si ritiravano li Christiani..."

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Fig. 27 - Monumento delle Platonie, interno (Basilica di S. Sebastiano, Roma)

Baglione rivendicava cristiano il culto dei morti ed il rito sacramentale di grazia nella sepoltura dei condannati all’esecuzione capitale nell’area monumentale paleocristiana della Basilica di S. Sebastiano.

Lo scavo di Styger avrà riportato alla luce nel secolo scorso l’accesso alla tomba sotterranea, in cui si supponeva fossero state calate le reliquie, al di sotto del livello del mausoleo bizantino delle Platonie (fig.26, 27). Anche Ottavio Panciroli prima di lui avrà datato il monumento al IV secolo (Panciroli, op. cit., Roma 1625, p. 662): “Poi circa l’anno 367. fu la chiesa rinnovata da San Damaso Papa, quale adornò il deposito de’ SS. Apostoli, che nel suddetto luogo fecero i Greci, coprendolo con belli marmi: qual ornamento in quei tempi dimandarono Platonie.” A fianco del quale nel 1612 il cardinale Scipione Caffarelli Borghese avrà riedificato la grandiosa navata della basilica costantiniana circiforme, ripristinandone l’accesso alla Memoria degli Apostoli e al complesso catacombale del sepolcreto romano extra moenia, nel fondo di Erode Attico.

La Passio Sancti Sebastiani di Arnobio di Sicca (IV° secolo) e la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine attribuivano a Sebastiano (m. 288 d. C.), un soldato romano vicino all’imperatore Diocleziano, l’iniziativa di praticare alla luce del sole il culto delle reliquie ‘ad catacumbas’, nei cimiteri fuori porta, eversivo nei confronti dell’editto imperiale di sacrificare non ad altri che agli dei pagani.

La serie di dipinti non potrebbe dirci di più sul fatto che agli albori del Seicento fosse questo il luogo venerato a Roma per esservi stati arrestati i due Santi Pietro e Paolo il 29 giugno del 67 d. C., e, almeno Pietro secondo la predizione del Vangelo di Giovanni (21, 15-19), condannati al martirio, momento storico al quale viene fatta risalire l’iniziativa della Scrittura del Vangelo di Marco. L’iconologia del complesso pittorico della Cappella Cerasi appare letterale anche rispetto ad Eusebio di Cesarea e al De Viris illustribus di Sofronio Eusebio Girolamo, San Girolamo, per il quale Pietro fu crocefisso a testa in giù, conforme al martirio del Santo affrescato da Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano. Il luogo del martirio di Pietro, commemorato a S. Pietro in Montorio, era stato nell’Ager Vaticanus, il Circo Neroniano sottostante la piazza e la Basilica Petriana, dove sul terreno nudo della Necropoli precostantiniana le Sacre Grotte Vaticane erano state ricreate da Adriano III nell’884, secondo Giulio Mancini, e furono restaurate dal Pontefice Clemente VIII Ippolito Aldobrandini, che pavimentò la navata centrale della Basilica per il Giubileo del 1600. Da Paolo V, suo successore, poco dopo, nel 1605, sara’ abbattuta l’ultima parte della Basilica Costantiniana e spostata la cassetta delle reliquie nel Sepolcro, identificata dall’epigrafista Margherita Guarducci nel 1959 e poi ancora, con successivi studi, negli anni Sessanta. 

Il martirio di S. Paolo sarebbe avvenuto meno lontano dal luogo dove i due Santi furono separati, cioé la demolita Cappella del Crocefisso alla Porta S. Paolo sulla Via Ostiense, la cui edicola oggi si trova nel Museo della Centrale Montemartini. Nel 1605 Guido Reni dipingeva la Crocefissione di S. Pietro (Pinacoteca Vaticana) per il cardinale Pietro Aldobrandini dalla chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, ritenuta il teatro della sua decapitazione, come ebbe a dire anche Ottavio Panciroli nei Tesori nascosti dell’Alma città di Roma (Roma 1625, p. 660). Se poniamo a confronto la lunetta della Sepoltura di Cristo di Annibale (figg.1, 4) e la Deposizione di Cristo di Caravaggio (fig.38) della Pinacoteca Vaticana, dipinta per la Cappella Vittrice di S. Maria della Vallicella nel 1603, il messaggio Cristiano e’ fondamentalmente lo stesso: la casa di Cristo è nella nuda terra sotto la pietra e la chiesa è fondata sulle piramidi delle Pie donne e dei Nicodemi, cioé sulla pietà professata dai Vangeli.

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Fig. 28 - Raffaello, La Carità, scomparto della predella della Deposizione Baglioni (Musei Vaticani)

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Fig. 29 - Trasporto del corpo di Meleagro, bassorilievo del fianco di sarcofago, marmo (Musei Capitolini)

Nel Caravaggio la bocca di Cristo è aperta e nel Carracci, nella lunetta della Deposizione, (fig.4) è Giovanni custode dell’immortalità per aver reso nel suo Vangelo anche la testimonianza di Cristo Risorto, il Redentore trionfante del suo stesso sacrificio riapparso a S. Pietro che giganteggia nella tavoletta di Londra (fg.14). Il braccio di Cristo, calato in basso nel gesto del perdono da Caravaggio, ma non da Carracci nella lunetta, come la sua bocca semiaperta, appartengono alla stessa gestualità della Deposizione Baglioni di Raffaello alla Galleria Borghese, mutuata, anche da Tiziano, dalla Pietà di Michelangelo, e da questi dal sarcofago di Meleagro ai Musei Capitolini, lo scomparto sul lato corto (Fig.29) dalla raccolta Albani, il sarcofago Capranica Della Valle (Ulisse Aldrovandi, Di tutte le statue antiche che per tutta Roma in diversi luoghi si veggono, raccolte e descritte, in Lucio Mauro, Le Antichità di Roma, Venezia 1556, p. 219).

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Fig. 30 - Georg Kristoph Kilian, Sepolcro degli Scipioni sulla Via Appia, incisione

 

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Fig. 31 - Sepolcro degli Scipioni, interno, positivo da gelatina (Museo di Roma, Palazzo Braschi)

 

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 Fig. 32 - Ingresso del Sepolcro degli Scipioni, gelatina al bromuro d’argento (Museo di Roma, Palazzo Braschi)

Un dipinto, quello di Raffaello, che Caravaggio (fig.38) dimostrerà di conoscere piu’ di Carracci stesso, anche se, commissionato da Atalanta Baglioni e firmato e datato 1507, sarà pervenuto a Roma dalla chiesa di San Francesco al Prato a Perugia nella raccolta del cardinale Scipione Borghese solo nel 1608, dove fu copiato fedelmente da Giuseppe Cesari D’Arpino. Nello scomparto della predella con le Virtù Teologali della Pala Baglioni che raffigura la Carità (Musei Vaticani) (fig.28) è la poetica degli affetti in cui si fronteggiano gli Eroti, due puttini con la face ardente e con l’uva che simboleggiano il contrasto di Eros ed Anteros nell’ostensione dell’offerta eucaristica: la misericordia, tra gli impulsi di dedizione e riluttanza. La Deposizione di Carracci (fig.4) avviene nel cimitero antico sulla Via Appia, immersa nel paesaggio, quella di Caravaggio (fig.38) poggia su una lastra rettangolare, il ‘lapis untionis’ di questo bassorilievo con la morte di Meleagro (fig.29). Non e’ detto che sia solo questo sarcofago quello visto dal pittore: le fronti di sarcofaghi con questa scena, infatti, sono molte e ne esistono disegni tardorinascimentali come quello con Meleagro dell’anonimo Codex Coburgensis, dove sempre l’eroe è quale riconoscibile vittima e artefice di un omicidio parentale, ed un altro scomparto era confluito nella collezione Mattei, ma è questo a mostrare il ‘lapis untionis’. Entrambi i sepolcri appartengono alla tradizione latina, il tumulo analogo a quello del patrizio Sepolcro degli Scipioni (fig.30) di Carracci, in realtà le collinette che interravano il Romuleo del circo di Massenzio e le Platonie, e la lastra del tipo di origine tombale dei pavimenti delle chiese paleocristiane della tela di Caravaggio (fig.38),

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 Fig. 33 - Romuleo del Circo di Massenzio

un perduto rivestimento delle Platonie. Come in entrambi i dipinti vi sono il compianto e la ‘pietas’ romana dei contrari affetti di Raffaello (fig.28) e della memoria custodita dal sepolcro romano. Il Sepolcro degli Scipioni (fgg.30, 31, 32), all’interno della cerchia muraria e, piramidale, dei Metelli, al suo esterno, come anche quello dei Servili erano noti nel Rinascimento ed erano menzionati dalle edizioni delle Antichità della città di Roma tanto di Lucio Fauno (pseud. di Giovanni Tarcagnota) che di Lucio Mauro tra il 1548 e il 1556. Anche i sepolcri dove sorgerà la nuova basilica di S. Sebastiano nel 1612 ed il Romuleo (fg.33) rotondo, probabilmente l’erculeo del Dio Redicolo con pronao a timpano, creduto già eretto da Domiziano nell’area del Circo 

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Fig. 34 - Casale della Vaccareccia sulla Via Appia Antica (Google maps)

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 Fig. 35 - Statua acefala stante di offerente panneggiata e con calzari, marmo lunense (Villa Borghese, deposito Museo Canonica)

 

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 Fig. 36 - Caravaggio, Fruttarolo o Ragazzo con cesto di frutta (Galleria Borghese, Roma)

di Massenzio al terzo miglio, a quel tempo ritenuto il Circo di Antonino Caracalla o anche, da Fabretti, di Gallieno, come avrà interpretato Ridolfino Venuti, si fronteggiavano nella conformazione di collinetta di pozzolana erbosa descritta nel paesaggio della Sepoltura da Carracci. Le fotografie del portale dell’ingresso al Sepolcro degli Scipioni (fig.32) in Via S. Sebastiano e dell’interno dello stesso Sepolcro sono l’una da una gelatina al bromuro d’argento del 1926-29 e l’altra (fig.31) un positivo da una lastra del medesimo periodo, entrambe del Museo di Roma, che, con la settecentesca incisione di Kilian (fg.30), dimostrano la differente evidenza dei sepolcri interrati nel rilievo monumentale e archeologico posto in opera dai due pittori, dall’esterno e all’interno. Da Caravaggio la pietra con l’evidenza grezza del lastrone tombale (fig.31, 38), che esalta l’attenzione dei semplici, rivolta non tanto alla complessità dei simboli liturgici, ma alla scalpellinatura dei materiali sacri, che sono sotto gli occhi della gente una volta penetrata la tomba. Concreta l’abilità del pittore sia nel fare un quadro buono di fiori e di frutti che un quadro buono di figure, come riferirà (gli avrebbe detto personalmente) Vincenzo Giustiniani e, in questo caso, di restituire volume, massa, colore, rugosità e consistenza perfino alla pietra del rivestimento di un sepolcro romano.

Se avessimo qualche dubbio sul fatto che non solo Carracci, ma anche Caravaggio si aggirasse da queste parti fin dal suo arrivo a Roma, presumibilmente nel 1594, non vi sono dubbi che Scipione Caffarelli Borghese, giovanissimo, potesse attingere dalle proprietà Caffarelli del casale cinquecentesco della Vaccareccia (fig.34) oltre il corso dell’Almone, ma sempre nei pressi di S. Sebastiano, questa scultura del II sec. d. C., una statua acefala stante di offerente (fig.35), panneggiata e con calzari, in marmo lunense, e probabilmente del dio Vertumno dal Ninfeo di Egeria, che sarà poi collocata nella Villa Borghese, nella collezione del cardinale. Né che il pittore se ne fosse avvalso per il dipinto del Fruttarolo (fig.36) o Ragazzo con canestro di frutta, conservato nella stessa villa. Più che probabile è l'identificazione del dipinto con il numero 56 dell'inventario del sequestro fiscale a Giuseppe Cesari D'Arpino del 1607: 'Un quadro con un giovane che tiene un canestro di frutti con le cornici nere' (ASV, Fondo Borghese, Serie I, 27, c. [333]).

Un prelievo d’immagine che complica sensibilmente il procedimento di un estemporaneo autoritratto allo specchio supposto dallo studio anatomico del deltoide del giovane, sviluppato tagliando fuori dal quadro le gambe della statua mutila per trarne un ritratto nel formato del busto romano.

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Fig. 37 - Poggiolo della Sepoltura di Cristo  (Basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme), incisione da Bernardino Amico da Gallipoli, Trattato delle Piante & Immagini de Sacri Edifizi in Terra Santa, Roma 1620, tavola 3

Piu’ livelli di elaborazione pittorica: dal modello, dalla statua, anatomica e prospettica allo specchio, dal vero naturale della frutta e geometrico del cesto intrecciato reso a pennello con la lumeggiatura, che presumevano anche il modello reale del cesto davanti per lo studiato busto in antico: forse la prima ‘capoccia’ eseguita a Roma da Caravaggio. Sull’Appia, al Ninfeo di Egeria, Pietro de’ Sebastiani al termine del Viaggio Curioso (Roma 1683) della Roma profana notava anche: “L’Acqua Santa fuori di Porta S. Bastiano, ottima per rinfrescare, ove sono bagni giovevoli.” Né, sotto il profilo storico-documentario dell’accorpamento del territorio dell’Appia antica in possedimenti familiari alla fine del Cinquecento vi sarebbero dubbi sul fatto che gli Aldobrandini, i Caffarelli e il Borghese dopo il 1599, anno dell’esecuzione capitale degli eredi Cenci, ritenuti colpevoli di parricidio, si spartissero la tenuta del Casale o Castello di Torrenova sulla Via Labicana, estesa dalla Borgata Giardinetti alla Caffarella che circondava le Mura Aureliane, il più grande latifondo del Capitolo di S. Sebastiano appartenente a Francesco Cenci, nel 1601 ereditato da Olimpia Aldobrandini senior.

Non c’è nella Deposizione di Caravaggio (fig.38) l’intento dottrinale di dimostrare che il Sepolcro di Cristo a Gerusalemme (fig.37) fosse una sepoltura romana come il Sepolcro degli Scipioni (fig.31): c’è l’interno del sepolcro delle Platonie, che oggi e’ del tutto spogliato di ogni rivestimento marmoreo. Per la verità l’intento non c’è nemmeno in Carracci (fig.1), che addensava altrettanto di mistero la sacralità delle catacombe come si presentavano nel paesaggio (fig.14, 30, 33), un pittoresco riconoscibile al fedele e al laico, come al lapso e al cultore. Ma Caravaggio vi ha realizzato una pietra tombale geometrica in scorcio, che è un mero rilievo architettonico a colori delle lastre marmoree della tomba, che si trovano ancora nel Sepolcro degli Scipioni, restituendo un solido di rotazione, il volume di un cilindro alle pareti del Mausoleo delle Platonie. La sua nudità contrasta con i sontuosi depositi funebri basilicali e gli altari oratoriani coevi, attirandogli le critiche di indecorosita’ che gli rivolgeranno tanto i suoi detrattori come Giovanni Baglione, quanto gli estimatori come Giulio Mancini e Giovan Pietro Bellori, sebbene questi ultimi nel paragone all’esemplare naturalismo di Carracci, svantaggioso per Caravaggio, e non rivolte al Sepolcro di Cristo della sua Deposizione (fig.38), catacombale anche se pervasa di luce: “di esatta imitazione” secondo Bellori. Ed e’ possibile trovare nei testi dei missionari francescani, in dettaglio il Trattato delle Piante & Immagini de Sacri Edifizi in Terra Santa (Roma 1620, tav.32) di Bernardino Amico da Gallipoli, tornato a Roma nel 1598, che del Santo Sepolcro avevano la custodia, la descrizione e le incisioni della pietra del Sepolcro posta sul poggiolo della Sepoltura di Cristo e delle camere edificate da re Baldovino nel Tempio di Gerusalemme in Terra Santa. Sepolcro che nel fermento religioso di quegli anni era detto, fra l’altro, essere completamente chiuso, protetto dalla profanazione. Nel dipinto di Caravaggio (fig.38), al chiuso della camera sepolcrale, piu’ che un mortale Cristo e’ un dannato nel livore del volto, anzi un condannato dalla legge romana.

Il fatto che anche il suo maestro Simone Peterzano avesse disegnato i corpi di dannati del Giudizio di Michelangelo, prima di dipingere la Deposizione di San Fedele a Milano, dimostra il metodo di lavoro di tutti i pittori manieristi, che per Peterzano e’ descritto dai fogli di disegni del Taccuino dell’Ambrosiana, che gli sono riferiti.                                                   

Nella Deposizione di Caravaggio (fig.38), dipinta per la cappella di Gerolamo Vittrice nella chiesa di S. Maria della Vallicella, Cristo e’ trasfigurato dal soffio della parola proferita dalle labbra in punto di morte, la ‘commemoratio vivis’ dell’Eucarestia, ma il suo sepolcro è aperto nel ‘memento mei’ della Resurrezione della carne ed il suo fiato alita la luce dalla materia nel ‘rigor mortis’. In Carracci è un luminoso paesaggio collinare fuori porta che inserisce la figura di Giovanni, diacronicamente testimone della Resurrezione, nella Deposizione di Cristo, Caravaggio la vede simultaneamente cogli occhi di Giovanni (Giovanni 19: 38), che assiste anche alla Resurrezione (Giovanni 20: 1-18), dicendo quali sono le sue fonti: il ritratto di Michelangelo Buonarroti nel volto di Nicodemo accanto a Giuseppe d’Arimatea, a sua volta un volitivo ritratto di Raffaello Sanzio, a confronto con il suo autoritratto e che nella Deposizione Borghese aveva invece ritratto membri della famiglia Baglioni (figg. 40 a, b, c). Nel volto di Giuseppe d’Arimatea Bellori riconoscerà San Giovanni stesso. Non vi è altra suggestione nel sincretismo dei ritratti dei due Nicodemi che Pietro e Giovanni Evangelista fossero le identità dei primi testimoni, insieme a Maria di Magdala, della Resurrezione di Cristo: come avrebbe fatto un catecumeno o un oratoriano dei padri Filippini il pittore ha rappresentato Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo secondo il Vangelo di Giovanni ed ha integrato il miracolo che seguiva solo nel suo racconto, evidenziando nei comuni fedeli i pittori stessi,

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Fig. 38 - Caravaggio, Deposizione (Pinacoteca Vaticana)

 

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 Fig. 39 a - Raffaello Sanzio, Autoritratto (Uffizi, Firenze) b - Raffaello Sanzio, Deposizione Baglioni, particolare (Galleria Borghese, Roma) c - Caravaggio, Deposizione, particolare (Pinacoteca Vaticana)

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Fig. 40 a) - Caravaggio, Vocazione di S. Matteo, particolare del ritratto di Clemente VIII (Cappella Contarelli, Chiesa di S. Luigi dei Francesi, Roma) - b) - Giuseppe Cesari D’Arpino, Ritratto di Clemente VIII (Pinacoteca Diocesana, Senigallia)

fra i testimoni della fede: la storia della pittura la Biblia pauperum.

Chi era il pontefice Aldobrandini per Carracci e Caravaggio? Dai dipinti di Annibale sappiamo già che il committente delle lunette era un nipote cadetto e riacquisito da papa Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, il nipote che di nome faceva Giovan Francesco ed era comandante delle spedizioni Crociate contro i Turchi in Ungheria. Combattente a fianco degli Asburgo dal 1595 al 1601, anno in cui ne morì, Giovan Francesco possedeva dal 1600 gran parte dell’area dell’Appia antica.

Nella Vocazione di S. Matteo a S. Luigi dei Francesi (fig.40 a) di Caravaggio, inoltre, si vede Clemente VIII ritratto nel pubblicano che inforca gli occhiali al fianco di San Matteo, in scorcio chino sul tavolo. La politica di riconciliazione con Enrico IV di Borbone del pontefice aveva ottenuto nel 1598 il possesso di Ferrara e intrapreso le trattative che nel 1600, anno del grandioso Giubileo al quale si data il dipinto, conducendole dalla Legazione di Ferrara, il giovanissimo cardinale nipote Pietro Aldobrandini, in luogo del cardinale legato Alessandro Medici, portò avanti con Carlo Emanuele I di Savoia e con Enrico IV, fino alla loro conclusione con il trattato di Lione. Realistica pittura di storia il fatto che, morto nel 1585 Mathieu Cointrel committente della Cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi, Caravaggio vi ritraesse, pur eseguendo i dettami del soggetto dalla memoria del contratto stipulato dal defunto, senza mezzi termini tra i gabellieri dell’autorità prefettizia romana al fianco di S. Matteo, gli artefici della composizione dello scisma della chiesa francese, precipitando nell’attualità l’episodio evangelico richiesto per la cappella della chiesa di quella nazione. Essi vi erano raffigurati nella persona del pontefice, che in privato era solito portare gli occhiali, che inviò il suo familiare più stretto in rappresentanza della chiesa cattolica, il cardinale Pietro Aldobrandini, allora poco piu’ che trentenne e, raffigurato in abiti laici e con il cappello piumato con il quale probabilmente Caravaggio lo conobbe, Ferdinando Gonzaga. E per di più mostra nel suo ritratto il papa, diametralmente opposto a S. Pietro al fianco di Cristo, preoccupato di supervedere ad un contabile, Piero Del Nero, un gabelliere romano altrettanto in abiti contemporanei, le ingenti spese sostenute nelle contrattazioni con il re di Francia e nella resistenza alle invasioni musulmane, dandoci uno stralcio di diretta da inviato speciale del suo operato nella funzione apostolica: cioe’ ne avesse, piu’ che un’opinione, un’impressione flagrante dalla relazione personale avuta con lui di uomo vigile e indaffarato nella cura degli interessi dello Stato pontificio, in altre parole, il potere temporale. La differenza fisionomica con il ritratto di Giuseppe Cesari D’Arpino del Museo Diocesano di Senigallia (fig.40 b), dove il papa, con la testa protesa e il volto dagli zigomi pronunciati di un sessantacinquenne, scrive il nome di Clemente VIII da pontefice sul foglio davanti a sé, testimonia anche in quale veste ufficiale Caravaggio potè visitarlo e fu introdotto nella Cappella Paolina. Una circostanza in cui il pittore vide l’affresco di Michelangelo della Crocefissione di S. Pietro, che ribaltò, sempre nel corso dello stesso anno, dipingendo la sua Crocefissione del Santo nella predetta Cappella Cerasi di S. Maria del Popolo. Da S. Sebastiano, fin dall’VIII secolo, si accedeva al Monastero Cistercense appartenente all’ordine francese della Cattedrale di Saint Pierre di Beauvais, che fu abbandonato dai monaci nel 1584.

Tutt’e due i quadri della Deposizione (figg.1 e 38) si soffermano sulla consapevolezza dell’omicidio che si è compiuto per volontà divina, in una stirpe ed in una fede, ed in ognuno risuona l’“iterum crucifigi” degli Acta Petri, per la seconda volta crocefisso sul Golgota. Se una differenza fra le due tele c’è è che in quella di Caravaggio (fig.38) la pietra è ruotata angolarmente e, possiamo ritrovarvi infiniti significati che rinviino alla simbologia della croce, anche in rapporto ai sempreverdi della vegetazione perenne, che è possibile ritrovare, insieme al querciolo, ancora nella Fuga in Egitto di Caravaggio alla Galleria Doria Pamphili a Roma, quali, sullo sfondo della Deposizione (fig.38), le foglie di sicomoro, simbolo della ‘felicitas temporum’ - affrescati nel sepolcro sottostante l’abside palatina dell’area di Massenzio - e la pianta di tasso barbasso, che inondava la campagna romana in ogni stagione. A quest’altro sepolcro, sul quale fu eretta la grandiosa esedra da Massenzio, probabilmente apparteneva la lapide commemorativa della tomba del figlio Valerio ritrovata da Antonio Nibby. Ma le foglie, quasi invisibili nel dipinto di Caravaggio, raffigurano la spazialità del cesto offerto dal Fruttarolo ed il significato cristologico, che non e’ possibile tacere, è che il sepolcro è aperto e la parola di Cristo risorgente, la sua testa sollevata che nessuno sorregge, poiché il braccio di Giuseppe passa sotto al collo, è proferita dalla bocca aperta di un condannato. L‘’anemus’ spirante è il respiro della Resurrezione dei morti, che è impavido e trionfante nel vigoroso Gesù di Carracci, e ruota la pietra nella rotondità dei gesti delle figure nella Deposizione di Caravaggio (fig.38): lo scorcio del gomito di Nicodemo, le braccia alzate di Maddalena e il braccio abbassato di Cristo, la flessione indulgente che lo asseconda del braccio della Madonna.

Se volessimo approfondire potremmo dire che il corpo di Cristo piu’ che a quello della Crocifissione di Peterzano, in quanto le gambe qui sono sorrette a braccia da Nicodemo, dipende anche da un’altra fronte del sarcofago di Meleagro, dove le estremità del cadavere trasportato nella pompa funebre erano issate a spalla ed il braccio di Meleagro euritmicamente calato altrettanto al culmine di una processione, il moto che getta luce sulla Deposizione del pittore come dinamica della scena seguente di un rituale greco-romano: e’ la fronte di sarcofago (fig.41) incisa da Pietro Santi Bartoli, con le Note di Giovan Pietro Bellori, nel 1693 nelle Admiranda Romanarum Antiquitatum.

 

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Fig. 41 - Pietro Santi Bartoli, Trasporto del corpo di Meleagro, bassorilievo, incisione da: Admiranda Romanarum Antiquitatum

La conferma che il pittore avesse avuto modo di vedere proprio questo sarcofago, che sarà stato inciso da Bartoli quando ancora si trovava nel Palazzo Barberini (Aedes Barberiniana è annotato a margine dell’incisione) proviene dall’altra fronte della ‘Pompa funeralis’ dello stesso reperto archeologico incisa nelle Admiranda, dove, nella parte centrale del bassorilievo, su una pira, si scorgono le gambe troncate di un cadavere che sembrano uscire dalle fiamme come da una roccia (fg. 42).

 

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Fig. 42 - Pietro Santi Bartoli, Rogo del cadavere di Meleagro, bassorilievo incisione da: Admiranda Romanarum Antiquitatum

Analogamente a quanto accade nelle Sette Opere di Misericordia della chiesa del Pio Monte della Misericordia a Napoli (fig.44a), dove Caravaggio avrà dipinto, fra le altre, l’opera misericordiosa di ‘seppellire i morti’. Nel dettaglio si vede un morto sorretto da S. Vito per le gambe che escono da un muro: un’immagine surreale che e’ un’altra autentica citazione classica, e dallo stesso sarcofago che si troverà a Palazzo Barberini (fig.42, 43). Perciò una fonte determinata, che consentirebbe anche di identificare il decano con la candela accesa, che veglia il trasporto del condannato, con lo stesso cardinale Maffeo Barberini (fg.44a), estremamente somigliante com’è al ritratto del cardinale di Palazzo Corsini a Firenze (fig.44b), referendario della Segnatura di Grazia e neoeletto cardinale nel 1605. Oltre al pagamento a Caravaggio di Niccolò Radolovich per questa pala nel 1606 tramite il Banco di S. Eligio, nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, che commissionava al pittore una tela con la Madonna e il Bambino con angeli e fra gli altri santi S. Vito e S. Niccolò, a chiarire che il diacono nel dipinto sia identificabile con S. Nicola, secondo la volontà di Radolovich, e’ la Descrittione di Roma antica e moderna, edita da Giovan Domenico Franzini nel 1643. Al culto del Santo, afferma Franzini, anche a Roma era assegnata, oltre al titolo di S. Nicola in Carcere, la chiesa di “S. Niccolò de’ Perfetti”, o dei Prefetti (Christian Hülsen, Firenze 1927, alla voce), presso la quale era venerata un’icona della ‘Mater Misericordiae’ ed era situato, sulla Via Trinitatis, il Palazzo della

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Fig. 43 a) - Caravaggio, Sette Opere di Misericordia, particolare (Chiesa del Pio Monte della Misericordia, Napoli) b) - Anonimo, Ritratto del cardinale Maffeo Barberini (Palazzo Corsini, Firenze)

Prefettura, la Tesoreria del 'Patrimoniun Petri’, il Monte d’oro: dagli eredi Ciocchi Del Monte era pervenuto al cardinale di Firenze ed è il palazzo tuttora noto a Roma come Palazzo di Firenze. La chiesa di S. Vito e Modesto al Macello di Livia era diaconia dal 1587 dedicataria a sua volta di un’altra immagine sacra della Madonna, devoluta al culto dei martiri cristiani insepolti dentro il perimetro delle mura.

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Fig.(4 bis) - Annibale Carracci, Sepoltura di Cristo, particolare (Galleria Doria Pamphilj, Roma) (Foto A. Villani & Figli)

L’altra chiesa dedicata a S. Nicola, la cappella cistercense di S. Nicola a Capo di Bove del Castrum Caetani era anche sulla Via Appia dove si estendevano le più grandi catacombe romane, ‘extra moenia’, consacrata da Bonificio VIII e demolita da Sisto V nel 1584 quando i monaci di Saint Pierre di Beauvais abbandonarono il fondo monastico nel quale era situato il complesso catacombale. S. Sebastiano era il Santo del culto della Sepoltura dei martiri venerato per eccellenza. Carracci avrà dipinto più volte la Deposizione, ma l’azione di Nicodemo di issare a spalla le gambe di Cristo che compare nel Sarcofago di Meleagro (figg.29, 41) non si trova tanto nella Pala Baglioni di Raffaello quanto nella Sepoltura della lunetta Aldobrandini (figg.1, 4, 4 bis) e nella Deposizione di Caravaggio (fig.38): meno osservato e’ che il gesto di abbracciarne il corpo sia ripreso, naturalissimo, dalla Sepoltura di Cristo della Chiesa di S. Urbano alla Caffarella (fig.11, 2° riquadro). Finendo per documentare un possibile prelievo del sarcofago smembrato dai Della Valle e dai Barberini in questo paesaggio archeologico nel 1600, nei pressi di S. Urbano, se anche Pieter Paul Rubens ne riprodusse il quarto pannello, con la scena di Meleagro che dona ad Atalanta la pelle del cinghiale, nel celebre Atalanta e Melegro (Metropolitan Museum, New York): un ritratto dei coniugi Doria-Spinola.

La nudità del corpo di Cristo di Raffaello e’ la tradizione della ‘pietas’ romana che Caravaggio e Carracci mostrano di conoscere (figg.1, 4, 4 bis), riavvolto invece nel sudario a S. Urbano (fig.11), a dimostrazione della simultaneità della storia sacra colta da Caravaggio in una sintesi originale nella Deposizione (fig.38) a confronto. Non c’è dubbio che nel quadro il telo, non piu’ atto a coprirlo, a sorreggerlo o a distenderlo come in Tiziano (Deposizione, Louvre) e che lo fa invece levitare in aria gonfiando lo spazio, sia il festone di frutti di un’offerta sacrificale, il lembo della clamide in cui l’offerente avvolgeva i frutti nella scultura Borghese (fig.35) ed il lenzuolo in cui S. Nicola si apprestava ad avvolgere il cadavere del condannato morto in carcere nelle Sette Opere di Misericordia (fig.43a).

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 Fig. 44 - Caravaggio, Madonna di Loreto, particolare (Cappella Cavalletti, Chiesa di S. Agostino, Roma

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 Fig. 45 - Portale della Chiesa di S. Agostino, Roma

Un altro quadro la Deposizione (fig.38), quindi, che dimostra la persuasiva concezione architettonica dei dipinti di Caravaggio e la cinetica del contrasto luminoso: volume, geometria del paesaggio e prospettiva urbana di un ambiente, stanza o parete che sia, o vuoto di una finestra come nella Fiscella (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), cioè materia ed energia.

Anche nella Madonna di Loreto (fig.44), dipinta nel 1604, della Cappella di Ermete Cavalletti della chiesa di S. Agostino a Roma, la cornice del portale della Santa Casa di Loreto, sulla cui soglia appare la Madonna con il Bambino in braccio, e’ concretamente l’elemento plastico della cornice, triplicemente scanalata, del portale della chiesa di S. Agostino romana (fig.45), a guidare la percezione dei fedeli e dei visitatori fino all’altare con la pala dell’apparizione misericordiosa della Vergine, che ne varca la soglia. La visione si svolge nella prima cappella a sinistra, dove era collocato il dipinto, figurativamente all'esterno della

Santa Casa di Loreto dentro la chiesa: davanti ai fedeli che guardano il dipinto in prima fila sono raffigurati i Santi inginocchiati di spalle, identificabili sotto il profilo storico con l’episodio del pellegrinaggio in Italia di S. Agostino e S. Monica, dai quali la pala è anche ricordata come Madonna dei Pellegrini. L’attenzione ai materiali da costruzione, analogamente ad Annibale Carracci, eleva il messaggio cristiano, ma lo priva di eloquenza, restituendone ancora una volta la nuda e cruda realtà dell’umiltà degli osservanti. La nudità del Cristo deposto dalle spalle di Caravaggio (fig.39) è la nudità del malato e del condannato, del moribondo, dell’assassinio della guerra e del delitto privato: la macabra nudità dell’esecuzione capitale del giovane defunto nel sepolcro. E’ questa luminosa componente astrattiva del cromatismo a suscitare tuttora anche negli estimatori l’interrogativo filosofico sulla verità delle sue immagini.


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